Debito pubblico: il convitato di pietra

- di: Massimiliano Lombardo
 

L’enciclopedia Treccani fornisce la seguente definizione figurativa di “convitato di pietra”: presenza incombente ma invisibile, muta, e perciò inquietante e imprevedibile, che tutti conoscono ma che nessuno nomina. Assistendo al perenne dibattito elettorale, che rischia purtroppo di accompagnarci ancora molti mesi a venire, viene in mente questa figura della commedia secentesca dello spagnolo Tirso de Molina (ripresa con maggiore notorietà circa un secolo dopo dal nostro Lorenzo Da Ponte nel Don Giovanni di Mozart) quando si pensa al ruolo che ha avuto il debito pubblico nell’attenzione dei cd. policy makers: appunto una presenza incombente ma invisibile, che tutti conoscono ma che nessuno nomina. Il fatto che sia stato un argomento sostanzialmente ignorato, muto, non lo rende meno inquietante e imprevedibile per le sorti dei bilanci nazionali e della stabilità della nostra economia.
Ci sono due date cruciali da segnare sul calendario per capire se e quando il fantasma del debito pubblico inizierà ad uscire dalla marmorea statua sepolcrale nella quale il dibattito politico l’ha per il momento relegato: la prima è ad ottobre 2019, scadenza del mandato dell’attuale governatore della BCE. La nomina del successore di Draghi potrà dare indicazioni su una linea di parziale continuità con le politiche accomodanti della banca centrale: continuità solo parziale, tenuto conto della inevitabile fine della campagna di acquisti sui titoli del debito pubblico (cd. quantitative easing), che naturalmente non potrà continuare all’infinito. O al contrario su una drastica, e potenzialmente nefasta, discontinuità, che lascerebbe il nostro Paese, senz’altro il più grande tra quelli maggiormente esposti nell’area euro, da solo a gestire senza “ombrello” gli eventuali attacchi speculativi esterni; quelli che nell’autunno del 2011 portarono alla più grave crisi politica della seconda repubblica, provvisoriamente tamponata con il cd. governo dei tecnici, ma ad oggi non ancora risolta in via definitiva. Non fu realmente una crisi finanziaria, né profondamente una crisi economica, quanto invece politica, nel senso che contribuì, al di là delle intenzioni, ad accelerare quella spirale di deterioramento del rapporto di fiducia tra i cittadini e i loro rappresentanti, tradotto poi negli orientamenti di voto della recente tornata elettorale. A dimostrazione del fatto che il tema della stabilità finanziaria, di cui per l’Italia il debito pubblico costituisce il maggiore elemento di rischio, è in maniera implicita ma molto significativa, in grado di influenzare gli assetti politici ed istituzionali come determinati dal voto degli elettori. 

La seconda data è ancora incerta ma più prossima, essendo legata agli esiti della XVIII legislatura appena iniziata, alla formazione di un governo ed alla direzione che si intenderà imprimere ai conti pubblici ed alla politica economica prossima ventura, nel dilemma della coperta corta tra contenimento della spesa pubblica e finanziamento di politiche di sostegno ai redditi, con la necessità di alleviare la tensione sociale sullo sfondo.
Assecondando una tendenza in atto in Italia ormai da un decennio, non ci si aspetta che acquisti un ruolo di primo piano il tema del ritorno agli investimenti stimolati e sostenuti anche dalla spesa pubblica, i quali nel 2016 sono scesi al livello minimo di 36 miliardi, solo il 2,1% del PIL; negli ultimi anni i governi hanno infatti privilegiato misure di spesa pubblica mirate a tentare di stimolare i consumi, quando è notorio che la voce di spesa pubblica con il più alto valore moltiplicatore e che quindi contribuisce maggiormente alla crescita, è quella per investimenti.
E così il problema enorme del debito pubblico diventa al tempo stesso causa della situazione e pretesto per non risolverla, o almeno per tentare di avviare la strada della soluzione.
Certo l’Italia è un ottimo pagatore, ha sempre onorato i propri titoli alla scadenza ed è sempre riuscita sinora a rinnovarli sul mercato trovando i compratori. Certo aiuta il fatto che oggi solo il 30% dei titoli del nostro debito pubblico sia in mano di investitori stranieri (nel 2011 era il 50%), riducendo l’esposizione verso creditori esteri si riduce anche il rischio di attacchi speculativi. Il debito però è salito, in questi 6 anni, dal 116% a circa il 132%, gli acquisti della BCE hanno consentito di contenere la spesa per interessi (il costo del cd. servizio del debito), che però nonostante questo si è aggirata negli ultimi 2 anni oltre i 60 miliardi di euro l’anno (circa il 4% del PIL). Risorse che vengono sottratte ad altri impieghi, politiche sociali e politiche di investimento. Cosa succederà nel prossimo futuro non è dato sapere, certo un aumento della spesa per interessi sul debito pubblico, o peggio ancora una riduzione delle scadenze (la cd. maturity) sarà una pessima notizia per qualunque governo e per i cittadini in primis.

Eppure non ci si deve rassegnare all’insormontabilità, serve il coraggio di proporre ed attuare qualche ricetta seria e concreta. Deve far riflettere il dato che, al netto della spesa per interessi, l’andamento dell’economia italiana negli ultimi 20 anni risulterebbe migliore di quello della Germania nello stesso periodo.
Preservare l’avanzo primario è una delle precondizioni sulla via del risanamento; nelle Considerazioni finali dello scorso anno il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, osservò che con un tasso di crescita annuo intorno all’1%, l’inflazione al 2 e con l’onere medio del debito in potenziale risalita verso i valori pre-crisi, un saldo primario (cioè al netto degli interessi) in avanzo del 4% del PIL, consentirebbe di ricondurre il rapporto tra debito e prodotto al di sotto del 100 per cento in circa dieci anni. Risultato alla portata, in linea con le previsioni ed il quadro programmatico del governo uscente. Alle stesse conclusioni giunge anche Carlo Cottarelli in un saggio pubblicato sempre lo scorso anno sull’ultimo Rapporto di finanza pubblica, prefigurando un triennio di contenimento e poi successivamente una ripresa della spesa.
Del resto la stessa ricetta fu attuata a metà degli anni ’90 da Carlo Azeglio Ciampi, quando era ministro dell’Economia nel 1° Governo Prodi: l’accumulo di avanzo primario consentì l’adesione alla moneta unica e con essa una riduzione della spesa per interessi da 116 miliardi nel 1996 a circa la metà (66) nel 2006. Si calcola che se l’avanzo primario fosse stato mantenuto costantemente attorno al 4% negli anni a venire, oggi il debito pubblico si attesterebbe, nonostante le crisi, a circa il 90% del PIL. Un bel risultato, e soprattutto molte risorse finanziarie da liberare per lo sviluppo e la crescita.

Occorre che si rialzi al più presto la testa sul problema per smuovere il macigno ed iniziare a farlo rotolare, prima che sia troppo tardi, che l’attuale fase di espansione si inverta o che l’avverarsi delle date di cui sopra acceleri l’inversione, prima che all’instabilità politica segua quella finanziaria ed infine quella sociale. Come dice il vecchio adagio popolare, col fuoco non si scherza.

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