Quando finalmente il Corona Virus diverrà un ricordo doloroso, ma pur sempre un ricordo, mi aspetto che chi ne abbia le capacità, ed intenda farlo senza condizionamenti ideologici, indaghi sul diverso atteggiamento che i reggitori del vero potere politico dei singoli Paesi abbiamo avuto nei confronti del Covid-19, su come combatterlo e su come evitare che esso avesse devastanti e quasi irreversibili conseguenze sul futuro. Un esercizio, quello dell'analisi, che porterebbe lontano e che, quasi certamente, imporrebbe di indagare, oltre che sulla basi culturali dei governanti, anche e soprattutto sul tasso di spregiudicatezza o assennatezza (la scelta è libera) che hanno mostrato. Il caso certamente più eclatante (vuoi anche perché stiamo parlando della nazione più potente del mondo) è quello di Donald Trump che si sta distinguendo per un approccio al problema quanto meno singolare, attuato con una serie di misure che hanno determinato sconcerto, rabbia e timori da parte di una fetta consistente della popolazione e, egualmente, sconcerto, rabbia e timori da parte della comunità scientifica per la quale le politiche presidenziali pencolano tra il populismo più sfrenato e la totale assenza di empatia col problema. Donald Trump si trova a dovere assumere decisioni importanti nel periodo forse più delicato della sua presidenza, quello che segna la fine del suo mandato e le elezioni di novembre. Molti politologi danno per scontata la riconferma sostenendo che i successi in economia conseguiti prima che il Corona Virus si abbattesse sugli Stati Uniti - facendone la nazione con il più alto numero di infettati e morti - sono stati tali da convincere gran parte degli elettori che, in fondo, lui è il male minore. Anche perché il suo probabile antagonista, Joe Biden, ha ancora sulle spalle il macigno della personalità di Barack Obama che gli ha impedito di mostrare le sue qualità, relegandolo sempre un passo indietro, un simulacro di potere sbiadito politicamente ed in termini di personalità. Ma l'approccio di Trump tutto è stato fuorché lineare, distinguendosi inizialmente per una ottusa sottovalutazione del virus e, successivamente, cercando per sé e per gli Stati Uniti dei nemici contro cui scagliarsi (oggi è la volta della Cina, ieri erano gli scienziati che lanciavano accorati allarmi), in un evidente tentativo di scaricarsi delle responsabilità accumulate. Già, in una persona qualunque, la scelta di comunicare attraverso i social ogni singola decisione darebbe materia di lavoro agli psichiatri. Ma, se a farlo, in modo compulsivo (e senza tenere conto di alcune circostanze, come la chiusura di Wall Street - che impedirebbe comunicazioni che possono avere ripercussioni sul mercato azionario -, che impone prudenza e rispetto delle regole della borsa) è il presidente degli Stati Uniti ecco che qualche perplessità emerge. Non chiudo, anzi chiudo; riapro tutto, no, non apro nulla; impongo regole di comportamento, ma neanche per sogno. Trump ci ha abituato a questo tipo di decisioni/non decisioni ed il brutto di questa situazione è che ormai tutti considerano il suo modo di fare e disfare come inevitabile. Dimentichiamo per amor di patria i suoi estemporanei suggerimenti agli americani su come combattere efficacemente il Virus (lampade ad ultravioletti, cosa che avrebbe fatto felice ed immune Carlo Conti; iniezioni di disinfettante per uccidere il Covid-19 attraverso l'annientamento fisico della persona infettata) e parliamo delle contromisure economiche alla crisi, seguendo spesso la scia delle proteste della parte più reazionaria dell'elettorato repubblicano e facendo l'occhiolino a chi, come in Michigan, per esternare il suo dissenso contro il lockdown, è sceso per le strade imbracciando - e per fortuna limitandosi solo a questo - fucili automatici d'assalto. Ma oggi Trump ha imboccato una nuova strada che, almeno a me, incute sgomento, disgusto, sconcerto. Il presidente ha detto, sintetizzando il suo pensiero, che vuole fare ripartire la macchina produttiva dell'America, mettendo in conto che questo determinerà un notevole aumento del numero dei decessi. Ritenuto, quest'ultimo, un male necessario pur di superare la crisi economica. Ora, premettendo che l'attuale domicilio di Donald Trump (la Casa Bianca) gli consente di dire tutto quello che gli passa per la testa e, peggio, di decidere in base alle sue personale convinzioni, mi chiedo che razza di governante è quello che ipotizza un numero maggiore di morti e quasi non se ne cura, sostenendo che in fondo è un prezzo che si può pagare alla ripresa dell'economia. Secondo le ultime stime, gli Stati Uniti hanno avuto già oltre 75 mila morti (e che moltissimi siano neri, anziani e poveri poco gli importa) e pensare che questo numero possa lievitare ulteriormente dovrebbe spingere il presidente - qualsiasi presidente - ad adoperarsi a che questo non accada. Ma non Donald Trump che, in questi frangenti e con le sue dichiarazioni, sta facendo ricordare a tutti la sua matrice imprenditoriale, che gli ha creato tanti amici e tanti sostenitori tra i ''ricchi'', ma anche tanti obblighi morali da rispettare. Come quello di riaprire le fabbriche oggi chiuse per evitare l'espandersi del contagio. Cosa è più importante, la vita di un uomo o quanto egli contribuisca all'economia nazionale? Per molti la risposta sarebbe obbligata, non per Trump.