A seguito della loro scadenza attualmente fissata al 2024 le concessioni demaniali andrebbero riassegnate mediante procedure selettive trasparenti, imparziali e pubbliche secondo quanto richiesto dalla direttiva 2006/123/CE. Il presupposto per l’applicazione di quest’ultima è il numero limitato delle concessioni, non la scarsità delle risorse naturali, che è un dato presupposto e ancorato a considerazioni qualitative, non quantitative.
La scadenza delle concessioni demaniali ad uso turistico ricreativo e la loro eventuale riassegnazione mediante procedure selettive ad evidenza pubblica secondo l’art. 49 del Trattato FUE e la direttiva sui servizi nel mercato interno 2006/123/CE (nota anche come direttiva Bolkestein) è un tema dibattuto e che offre diversi spunti di riflessione.
Concessioni demaniali e scarsità delle risorse naturali
Da ultimo la legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021, n. 118 del 21 agosto 2022, ha stabilito la durata delle concessioni fino al 31 dicembre 2023. Tale termine è stato poi prorogato di un anno, quindi al 31 dicembre 2024, dal decreto legge n. 198 del 29 dicembre 2022, convertito con legge n. 14 del 24 febbraio 2023. E’ prevista anche la possibilità di estensione di un ulteriore anno in caso di impedimenti oggettivi alla conclusione delle procedure selettive per la riassegnazione, ma solo per casi singoli da motivare volta per volta.
Tali norme sopravvengono alle c.d. decisioni gemelle dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 17 e 18 del 9 novembre 2021, che intervenendo su questioni di diritto di particolare rilevanza economico-sociale e sulla scorta dei principi espressi dalla nota sentenza della Corte di Giustizia UE Promoimpresa del 14 luglio 2016 avevano ritenuto incompatibile con il diritto eurounitario e da “disapplicare” la precedente proroga automatica e generalizzata addirittura al 2033 di tutte le concessioni demaniali ma, in considerazione del significativo impatto socio-economico della decadenza immediata di tutte le concessioni a seguito della pubblicazione della decisione, ne aveva “modulato nel tempo” gli effetti rinviandoli appunto alla data del 31 dicembre 2023. Con l’auspicio che nel frattempo il legislatore intervenisse per riordinare la materia in conformità ai principi eurounitari.
Inoltre con una statuizione oltremodo controversa l’Adunanza Plenaria aveva riferito la possibilità e necessità di disapplicare le proroghe automatiche non solo alle norme esistenti ma anche a quelle successive e “che in futuro dovessero ancora disporre” altre proroghe automatiche.
Alla luce di tali decisioni, le successive norme della legge n. 118/2022 si prestano a due osservazioni.
La prima è che la previsione legislativa della durata delle concessioni fino al 31 dicembre 2023 sarebbe stata a ben vedere superflua. Infatti la scadenza a tale data sarebbe già stata l’effetto naturale della “modulazione temporale” degli effetti della decisione da parte dell’Adunanza Plenaria, senza bisogno che una apposita norma legislativa confermasse tale data.
Potrebbe obiettarsi che si dà copertura legislativa e generalizzata ad un mero portato giurisprudenziale per il caso deciso. Ma, a parte che i principi espressi dall’Adunanza Plenaria in sede c.d. nomofilattica hanno portata generale e oltre il singolo caso, qui si innesta la seconda osservazione. E cioè che sia la norma originaria della legge n. 118/2022 sul termine di durata, che a maggior ragione quella del decreto legge del 2023 che lo sposta di un altro anno, riguardando indistintamente tutte le concessioni demaniali in essere, costituiscono proprio ciò che l’Adunanza Plenaria ha censurato anche per il futuro, ovvero altre proroghe automatiche, generalizzate e per legge di concessioni che altrimenti, senza la “modulazione temporale” voluta dall’Adunanza Plenaria per ragioni solo economiche e sociali, giuridicamente sarebbero già ampiamente scadute. E infatti lo stesso Consiglio di Stato in successive decisioni non ha mancato di rilevarlo, considerando tamquam non esset e da disapplicare in particolare la proroga al 2024 disposta dal d.l. 198/2022.
Le decisioni dell’Adunanza Plenaria sono state impugnate per un ritenuto eccesso di giurisdizione dinanzi alla Corte di Cassazione, che si esprimerà sulla loro legittimità dopo l’udienza fissata tra pochi giorni, il 24 ottobre.
Il tema che attualmente più agita il settore è quello della scarsità del demanio costiero, ovvero della risorsa naturale concessa e concedibile. Infatti l’art. 12 della direttiva Bolkestein, ripreso dall’art. 16 del d.lgs. n. 59 del 26 marzo 2010 che la traspone in Italia, prevede l’aggiudicazione mediante procedure selettive pubbliche, imparziali e trasparenti quando il numero di titoli concedibili sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o per motivi tecnici.
A riguardo, la sentenza Promoimpresa del 2016 ha precisato (Punti 43 e 49) che spetta al giudice nazionale verificare se le concessioni siano in numero limitato per via della scarsità delle risorse naturali e quindi rientrino nell’ambito dell’articolo 12 della direttiva.
Inoltre, da ultimo la sentenza del 20 aprile 2022 della stessa Corte di Giustizia nel caso C-348-22 Comune di Ginosa ha aggiunto (Punti 46 e ss.) che l’art. 12 della direttiva 2006/123 darebbe agli Stati membri “un certo margine di discrezionalità nella scelta dei criteri applicabili alla valutazione della scarsità delle risorse naturali” e nel preferire una valutazione generale a livello nazionale, un approccio caso per caso alle situazioni locali, o una combinazione di tali criteri, che secondo la sentenza sarebbe la soluzione “più equilibrata”.
Si è quindi fatta strada nel settore e anche a livello istituzionale l’idea che prima il legislatore e poi il giudice possano valutare se le risorse naturali disponibili siano scarse o meno, e che dimostrando che le spiagge e le coste concedibili sono abbondanti, la risorsa non sarebbe “scarsa” e quindi si potrebbero evitare le procedure selettive pubbliche per la loro (ri)assegnazione. E in tale direzione sembrerebbero muoversi anche i “tavoli tecnici” del Governo e degli operatori svoltisi negli ultimi mesi.
Tuttavia l’analisi oggettiva di tutti i dati rilevanti – fattuali, normativi e giurisprudenziali – dovrebbe rivelare l’erroneità di tale approccio, fondato da ultimo soprattutto sulle statuizioni invero equivocabili, ma forzate, della in apparenza “provvidenziale” sentenza Comune di Ginosa del 2023.
La dimostrazione di tale conclusione parte da un dato innegabile e pacifico: il demanio, che sia costiero, lacuale o fluviale, è certamente una risorsa naturale. Le concessioni demaniali hanno dunque indiscutibilmente ad oggetto risorse naturali.
Ebbene, prima ancora di scomodare nozioni di economica politica è noto quanto intuitivo che le risorse naturali, con la sola eccezione (forse) di quelle teoricamente “infinite” (sole e vento) di regola sono sempre “scarse”, ontologicamente e per definizione, perché sono limitate e/o destinate ad esaurirsi. Infatti la nozione economica e giuridica di scarsità è qualitativa, non quantitativa: una risorsa è “scarsa” quando non è disponibile illimitatamente, non quando è “poca”. Ed essendo la risorsa limitata, è irrilevante che sia “tanta” o “poca”, sarà comunque “scarsa” perché destinata ad esaurirsi.
Il secondo dato reale e incontestabile è appunto questo: il demanio non è illimitato. Le coste del mare, come anche le rive dei laghi e dei fiumi volendole considerare, sono quelle esistenti, e basta. Non possono essere replicate o riprodotte, né concesse a chiunque e senza limiti: una volta concesse tutte quelle esistenti e concedibili, la risorsa è finita; e, quindi, anche per tale via, essa risulta intuitivamente “scarsa”.
Il dato normativo letto correttamente è coerente con tale dato esperienziale. L’art. 12 della direttiva 2006/123 e l’art. 16 del d.lgs. n. 59/2010 richiedono le procedure selettive non se o quando la risorsa naturale è scarsa (come se potesse anche non esserlo) ma “qualora il numero di autorizzazioni…sia limitato”, e lo sia “per via della scarsità delle risorse naturali”, ovvero a causa di una realtà che come tale non è in discussione. Il presupposto rilevante è quindi non una scarsità della risorsa da accertare (che la direttiva dà per scontata trattandosi appunto di “risorse naturali”) ma il numero limitato dei titoli disponibili, che a sua volta per la direttiva semplicemente è conseguenza della scarsità ontologica delle risorse naturali, che come detto non è un dato ipotetico e da verificare ma il motivo del numero limitato dei titoli (“per via della scarsità delle risorse naturali”).
Ed il terzo dato reale ed incontestabile è che il numero delle concessioni demaniali è, effettivamente, sempre e comunque limitato. Infatti, che siano tante o poche, hanno ad oggetto le coste e le rive esistenti, che una volta concesse tutte sono finite, esaurendo la risorsa concedibile.
Ne viene che già solo per questo la sussistenza del requisito previsto dall’art. 12 della direttiva per le evidenze pubbliche, ovvero il “numero limitato delle autorizzazioni”, e fuori discussione. Mentre ogni speculazione sulla ipotetica maggiore o minore “abbondanza” di coste concedibili risulta solo strumentale e artificiosa.
Anche secondo la sentenza Promoimpresa, il giudice nazionale non deve verificare se la risorsa naturale è scarsa o no, ma, testualmente, “se dette concessioni debbano essere oggetto di un numero limitato di autorizzazioni” (Punto 43, e se quindi rientrino “nell’ambito di applicazione dell’articolo 12 della direttiva 2006/123” (Punto 49). La verifica riguarda quindi solo la circostanza se le concessioni rilasciabili siano limitate o infinite. La scarsità della risorsa naturale non che una delle possibili motivazioni della limitatezza riscontrata (“per via della scarsità delle risorse naturali”), e viene appunto in considerazione nel caso delle concessioni demaniali.
Resta il dubbio della portata di quanto si legge nella sentenza Comune di Ginosa del 2023, secondo cui l’art. 12 della direttiva darebbe agli Stati “un certo margine di discrezionalità nella scelta dei criteri applicabili alla valutazione della scarsità delle risorse naturali”. Ma anche in questo caso, a ben vedere la discrezionalità che si riconosce agli Stati non riguarda l’apprezzamento se le risorse naturali siano scarse o meno, ma solo “la scelta dei criteri applicabili” alla valutazione della scarsità, ovvero se essa vada riscontrata a livello nazionale, locale, o combinato. Diversamente argomentando, la sentenza si porrebbe in contrasto anzi tutto con il dato testuale dell’art. 12 della direttiva cui invece dichiara espressamente di rifarsi, e che però ritiene decisivo il numero limitato delle autorizzazioni in ragione della scarsità, e non quest’ultima in quanto tale.
Senza dire che secondo i principi e le norme dell’ordinamento nazionale l’assegnazione e la possibilità di sfruttamento di qualsiasi risorsa pubblica presuppongo sempre e comunque una procedura ad evidenza pubblica, a prescindere dalla scarsità o meno della risorsa in questione. Lo svolgimento di tali procedure anche per le concessioni demaniali sembra quindi necessitato ed inevitabile.