Quanti affari all'ombra della svastica

- di: Diego Minuti
 
Il nazismo, l'ideologia della Bestia, che portò il mondo a precipitare nell'incubo della seconda guerra mondiale, l'evento foriero del maggior numero di vittime (tra morti e feriti) della Storia dell'umanità, per qualcuno fu anche occasione per lucrare, per mettere a reddito le proprie capacità, giocando a carte con il Demonio e vincendo la sua parte di posta.
La fine del nazismo, 75 anni fa, costrinse il mondo intero a fare i conti con qualcosa di inimmaginabile, non per quello che fece contro uomini e donne (colpiti non per quel che avevano o non avevano fatto, ma sulla base di una perversa classificazione, laddove i "prescelti" erano parte del progetto per creare una classe eletta e destinata durare per secoli), ma per il principio che stava alla base della sua ideologia. Altri regimi fecero lo stesso o anche peggio (in Cambogia i khmer rossi si macchiarono di delitti ancora più gravi, se si guarda alla percentuale tra vittime e popolazione), ma le loro nefaste gesta sono passate in un contenitore, la Storia, che col passare degli anni sterilizza i sentimenti, riconducendo tutto ad una fredda analisi di cause ed effetti.
Ma quando si parla di nazismo.

Basta vedere quanti libri siano stati scritti, in questi decenni, su di esso e su quanto fece e mettere il loro numero a confronto con quelli che, ad esempio, hanno riferito delle vittime dello stalinismo.
Eppure, se si andasse a compulsare non solo i libri, in senso stretto, ma anche quelli contabili di alcune società ancora oggi sulla cresta dell'onda, in termini di immagini e di vendite, qualche sorpresina potrebbe saltare fuori. Ma, se il tempo non c'è, ma resta la curiosità, basterebbe avere la costanza di andare a vedere alcuni dei tanti documentari che hanno come oggetto il nazismo e, quindi, anche il panorama economico che si muoveva intorno ad esso, producendo ricavi elevatissimi.

Come la pregevole serie intitolata "Nazi megastructures", di National geographic, che - ricordando come i designer tedeschi eccellevano, in quegli anni, nel campo delle innovazioni ingegneristiche - potrebbe svelare, ai più, cose e persone, avvenimenti e conseguenze sino ad oggi pressoché sconosciuti o anche soltanto sottovalutati.
Alcune delle aziende che, avvalendosi di professionalità vicine alla genialità, si fecero ricche nel periodo del nazismo, sono in sella ancora oggi. Si trattò soprattutto di industrie essenziali a supportare il disegno bellico del regime e, come accade da sempre, alla vigilia di una guerra, furono quelle che guadagnarono di più, spesso attraverso processi di riconversione fortemente sostenute dal Governo. Insomma, il passo dalla meccanica per usi civili all'industria bellica fu breve e, in qualche modo, scontato in un regime che era tutto fuorché esente dalla malapianta della corruzione. E poco importa se la manodopera usata nell'industria pesante era composta soprattutto da migliaia di schiavi (difficile usare un'altra definizione) messi a disposizione dal regime che arrestava e mandava in campi di concentramento oppositori, ma anche chi con la politica non aveva nulla a che spartire.

Tutto il mondo è paese, si potrebbe dire, e la Germania degli anni '30 era un Paese come tutti gli altri, dove il Dio Denaro imperversava, inquinando anche le menti più pure. Sono parecchi i casi di imprese e industrie che, ben consapevoli della dittatura e del regime che aveva imposto, trovarono il modo di continuare a fare affari con i nazisti. Come, inaspettatamente, la Coca Cola che, arrivata in Germania nel 1929, conquistò subito i favori dei consumatori. Anche di Vip, come Hermann Goering, che si favoleggiava ne fosse un robusto consumatore, ovviamente dopo la sua amata birra bavarese.

La bevanda (inventata nel 1886 da John Pemberton) fu addirittura sponsor delle Olimpiadi del 1936, anche se quella fu una operazione commerciale soltanto (almeno per quel che oggi se ne sa). Ma, con l'ingresso degli Stati Uniti in guerra nel 1941, per la filiale tedesca della Coca Cola fu impossibile continuare a produrla suo suolo tedesco a causa del divieto di importazione per i prodotti di base necessari. Ma questo non scoraggiò il direttore della filiale tedesca, Max Keith, che, pur di continuare a vendere, inventò una nuova bevanda, frutto di una "orrenda" commistione (tra i suoi ingredienti anche bucce di frutta, fibre, zucchero da barbabietola e siero di latte, lo stesso usato per i formaggi).
Il sapore? Beh, parliamo d'altro.

Comunque, anche in piena guerra la nuova bevanda, cui fu dato il nome di Fanta (da Fantasie), continuò ad essere venduta, producendo importanti introiti. Questo anche grazie alla rete di relazioni che Keith (che alla fine del conflitto mondiale fu celebrato come un eroe dalla casa madre) vantava all'interno del regime nazista. Per capire meglio la portata di questa levata d'ingegno basti pensare che nel solo 1943 furono vendute tre milioni di casse di Fanta. Il gusto della Fanta di oggi non ha nessun riscontro con quello originario. La nuova versione, al tradizionale gusto d'arancia, fu messa in commercio nel 1955.

Bevande, macchine da guerra e non solo. Come certifica la storia di Hugo Ferdinand Boss, produttore di abbigliamento (ed ancora oggi marchio conosciutissimo in tutto il mondo) che, quando all'orizzonte del panorama politico tedesco fecero capolino i nazisti, ne fu piacevolmente sorpreso. Anzi cominciò a fare affari con loro, quando il regime prese a marciare al massimo della velocità. Boss - che aveva fondato la sua azienda nel 1924 - fece il primo colpo aggiudicandosi una commessa ricchissima per produrre maglioni ed uniformi per la Wehrmacht. Il perché di questo aggettivo, "ricchissima", essenzialmente poggia su un elemento di cui, evidentemente, il signor Boss riusciva (colpevolmente) ad ignorare la genesi: le sue fabbriche funzionavano grazie alla manodopera (uomini e donne ridotte in schiavitù) fornita gentilmente dal regime.

Questa malefica "joint venture" tra il nazismo e Hugo Boss non fu dimenticata con la fine della guerra. Anzi, poco dopo la fine del conflitto, quando il Paese cominciò a fare i conti con la coscienza collettiva, in Germania si cominciarono a levare le prime voci contro l'industriale che, sino alla sua morte (nel 1948), si difese dicendo che non avrebbe potuto fare altrimenti.
"Volevo solo salvare i miei affari", sostenne sino alla fine, ma quasi nessuno gli credette.
Il giudizio dello storico dell'economia Roman Koester è netto: "era chiaro che Hugo Ferdinand Boss non solo si univa al partito perché gli consentiva di ottenere contratti nella produzione di uniformi, ma anche perché era un simpatizzante del social-nazionalismo".

I legami tra Hugo Boss ed il regime sono tornati a fare parlare di loro in Germania nel 2011 quando un libro inchiodò l'industriale al ruolo dei convinto collaboratore del regime. Alla fine, dopo anni di traccheggiamento, di negazioni, di scuse, la Hugo Boss si è nuovamente scusata per il suo passato, nella speranza che nessuno voglia riaprire questo capitolo della sua storia.
C'era comunque chi, tra gli industriali tedeschi, manifestata apertamente la sua adesione al nazismo. Ferdinand Porsche cui Hitler chiese di costruire una vettura per tutti i tedeschi. Progetto da cui prese vita la Volkswagen.

Un altro marchio conosciuto in tutto il mondo forse vorrebbe cancellare la porzione della sua storia che lo ricollega al nazismo. È la IBM al quale, nel 1933, i gerarchi nazisti si rivolsero chiedendo di essere aiutati a realizzare i loro piani. Una collaborazione durata fino al 1945 e che, secondo molti storici, avrebbe consentito ai nazisti - avvalendosi dei sistemi logistici forniti dall'IBM - di portare avanti i loro piani, razionalizzando le loro risorse e organizzandone le varie fasi. E c'è chi sostiene che la messa in atto dei folli progetti dei nazisti siano stati frutto anche di questa collaborazione.
E non si pensi che le attività di collaborazione tra IBM e nazismo siano state in qualche modo nascoste. Nel 1937 l'allora presidente della società, Thomas Watson, ricevette da Hitler una medaglia per il suo eccezionale contributo al Terzo Reich.
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Italia Informa n° 1 - Gennaio/Febbraio 2024
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