Referendum sulla Giustizia: a chi giova veramente?
- di: Diego Minuti
Il referendum è l'argomento al quale, spesso e volentieri, si fa riferimento quando il discorso cade sui limiti della democrazia e, in questo contesto, si invoca la consultazione popolare e i suoi esiti come la massima espressione della volontà della gente. Una tesi che sarebbe accettabile, se solo si riuscisse a ragionare in termini non ipocriti, come invece accade quando si parla di referendum e si pensa ad altro, come, ad esempio, stravolgere alcuni gangli dello Stato senza che questo sia preceduto da un confronto in Parlamento, che è il luogo che, formalmente, rappresenta tutti. Anche in queste settimane, nell'imminenza del referendum sulla Giustizia (anche se sarebbe più corretto dire su quelle parti della macchina della giustizia che non piacciono a qualcuno), a prevalere sono le cordate politiche, a favore o contro, e non invece le analisi su un grande malato, ma non per questo da uccidere per evitargli le pene dell'agonia.
La Giustizia soffre di mali atavici, palesi, ma questo non giustifica di affidarne la riforma a meri calcoli numerici, per esempio di quanti si presenteranno a votare e che, tendenzialmente, come accade in tutti i referendum, lo faranno sostenendo la riforma (sempre che la si possa chiamare tale). Solo ora però ci si accorge che si tratta di referendum che, scontati nell'esito (prevarranno i favorevoli ai quesiti), sono a rischio per la questione del quorum, perché saranno in tantissimi quelli che nemmeno andranno a votare, nella consapevolezza che la loro singola scheda potrebbe contribuire al raggiungimento della soglia sacra, dando ragione a chi vuole spazzare tutto oppure, se si amano gli adagi, buttare il bimbo con l'acqua sporca. La riforma della Giustizia non può passare, a nostro modestissimo avviso, incidendo solo su quegli argomenti che interessano ad alcuni e non fregano assolutamente alla maggioranza del popolo sovrano. Come, si saranno chiesti in molti, la mia vita può cambiare se dirò la mia sulla ''partecipazione degli avvocati dei Consigli giudiziari alla formulazione dei pareri sulle pagelle professionali dei magistrati'' o sul numero minimo di firme per ufficializzare una candidatura per l'elezione al Csm?
Ma se poi, nel calderone referendario, ci metti la cancellazione della legge Severino (sull'incandidabilità di soggetti condannati, con sentenza definitiva, quasi che il Parlamento o un un Consiglio regionale siano luoghi di redenzione), la separazione delle carriere o negare a un magistrato di usare il pericolo di reiterazione del delitto per autorizzare la carcerazione cautelare e la messa di domiciliari, ecco che qualche perplessità viene fuori. E qui torniamo al referendum ed alla sua funzione di intervento su vicende che attengono alla sovranità del Parlamento. Il quale, lo diciamo a mo' d'esempio, nel momento in cui, approvando la legge Severino, ha impedito a qualche galantuomo, con sentenza passata in giudicato, di entrare nel massimo consesso rappresentativo del Paese, ha fatto quello che tutti si aspettavano in un particolare momento storico. Le leggi, si sa, non possono essere emanate sulla spinta di un movimento popolare spontaneo, ma non tenere conto dell'indignazione della gente di vedere l'elezione in parlamento come uno strumento per sfuggire alla giustizia degli uomini è altrettanto pernicioso per la democrazia. Ora che a farsi sostenitori della riforma siano uomini e partiti che hanno da sempre un rapporto controverso con la Magistratura sembra non un controsenso, ma il tentativo di piegare lo Stato verso una vendetta per vicende proprie o personali. L'unica speranza è che il referendum, quale che ne sia l'esito, ridia al Paese la serenità per andare verso una riforma vera della Giustizia, con alcuni magistrati che per decenni e decenni hanno ritenuto la loro funzione al di sopra del giudizio della gente, quasi sentendosi uno Stato nello Stato, al punto da riformarlo a colpi di ordini e mandati di cattura, come Mani pulite ha insegnato.