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Jacinda e la generazione dei piagnoni

- di: Barbara Bizzarri
 
Il potere logora chi ce non l’ha, e al giorno d’oggi pure chi ce l’ha. Tirano le uova a Carlo III che, con tutta la migliore volontà per far dimenticare la sovrana precedente, assurta a icona, e un figlio che si è rivelato ancora più noioso e inconsapevole del suo ruolo della madre, è andato nello Yorkshire praticamente per farsi insultare da un ventunenne con evidenti problemi assortiti, ma nessun ovetto, neppure di quaglia, è stato lanciato a Jacinda Ardern, primo ministro ( «prima ministra» no, sembra si tratti di una zuppa) della Nuova Zelanda, che ha scoperto – ohibò – che governare un Paese è più impegnativo che sparecchiare, e “Amici miei” non c’entra. Eppure: manco fosse andata a scavare in miniera. Eppure, nessuno che le avesse detto, e quindi? Sia mai infrangersi contro il politicamente corretto della lagna perenne, si spera non strumentalizzata a breve perché si tratta di una donna: non tutte le donne sono uguali e ce ne sono di ben altra tempra, rispetto a chi frigna per lamentazione generazionale e strutturale. Ardern, dopo aver capito che governare è stancante (davvero?), invece di tirare fuori i cosiddetti e fare il suo lavoro, ha concluso fosse meglio andarsene da (in)salutata ospite: grazie e arrivederci. “Scusate, troppa fatica” articola la miseranda, e via di pat pat sulla spalla: nessuno, curiosamente, contesta.

Nuova Zelanda, la premier Jacinda Ardern si dimette: "sono esausta"

Anzi, soltanto parole di comprensione e tenerezza per l’ennesimo piagnone privilegiato che alla fine si rivela non all’altezza della situazione e che può fare marcia indietro senza che nessuno chieda il redde rationem di ritorno. Sarebbe bello per tutti poter fare lo stesso discorso: professori martoriati da alunni cafoni e violenti che sparano pallini in faccia quando va bene e fanno venire un infarto quando va male? Impiegati qualunque stremati dalle otto ore giornaliere trascorse inchiodati a una scrivania con tutto il corredo che ne consegue, colleghi invidiosi e pettegoli, capi da compiacere, fatica aberrante, soltanto per pagare a malapena bollette e affitto nel Paese con gli stipendi più bassi del continente? Via, addio, e tanti cari saluti a tutti: è troppo faticoso. Già, sarebbe bello, però, ovviamente, non se ne parla. Certo, in Italia un personaggio pubblico che abdica al suo ruolo e se ne va è equiparabile a un marziano: basta sfogliare un qualsiasi quotidiano di dieci anni fa, i nomi sono sempre gli stessi, come oggi e come fra dieci anni. La rinuncia non è contemplata, mai, persino nelle più repellenti conferme giudiziarie, forse perché nessuno si stanca troppo per lavorare e, se lo fa, è ampiamente ricompensato da privilegi che i sudditi (pardon, cittadini, chissà ancora per quanto) possono soltanto sognare. E però la solfa del ‘nessuno è stanco quanto me, incompreso quanto me, estenuato quanto me’ propria di chi è nato nei ruggenti anni Ottanta ha davvero sfiancato, soprattutto chi deve starla a sentire da parte di certi furbastri tutt’altro che vessati a cui, purtroppo, non si può neanche tirare un ortaggio, oppure dire semplicemente, ma vai a lavorare (e falla finita).
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