I curiosoni dello stipendio e la politica del vedo-non-vedo

- di: Andrea Colucci
 
Qualche giorno fa, tardivamente, come spesso accade quando si tratta di direttive europee, ci siamo accorti che lo scorso maggio è stata approvata la 2023/970. Se ne sono accorti per primi i colleghi di Fanpage: onore al merito.  La direttiva – che in Italia dovrà essere recepita entro giugno 2026- ha un obiettivo preciso e si porta dietro un corollario importante e curioso. L’obiettivo principale è equiparare la retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro, oppure per un lavoro di pari valore. Per raggiungerlo vengono individuati una serie di meccanismi di trasparenza retributiva che ne garantiscano l’efficacia. Fin qui tutto bene. Inutile ricordare ancora l’importanza dell’abbattimento del gender gap sia nel pubblico, che nel privato: quindi non lo faremo.

Invece, è utile fare una riflessione sul corollario. Su uno, cioè, dei meccanismi di trasparenza introdotti dalla direttiva. Mi riferisco all’obbligo per le aziende di rendere pubblici e disponibili in qualsiasi momento i trattamenti salariali dei colleghi di una uguale categoria, o anche di categorie differenti. Beh, qui entriamo in un territorio più delicato e scivoloso. Mi va benissimo che colleghi di sesso diverso, o dello stesso sesso abbiamo condizioni salariali paritarie all’ingresso. Così come mi sembra assai intelligente che il salario per una determinata posizione sia in chiaro fin dal momento dell’offerta. Mi va un po’ meno bene che in qualsiasi momento del percorso professionale di una lavoratrice o di un lavoratore la sua retribuzione possa essere sbandierata ai quattro venti, rendendo pubblico un salario che nel frattempo può essersi trasformato in maniera eterogenea rispetto ad altri colleghi in virtù di una serie di condizioni cambiate nel tempo. 

Le performance di un lavoratore, operaio, impiegato, o dirigente che sia, possono, anzi dovrebbero, mutare ed evolvere nel tempo. Questo è l’obiettivo base di un qualsiasi iter lavorativo oltre, naturalmente, a procurarci quanto ci serve per vivere. Si chiama carriera. Si può ancora dire, o è diventato anche questo politicamente scorretto? La carriera, o un congruo percorso professionale travalica le politiche di genere e premia il merito, le capacità, e la voglia di muoversi dal punto di partenza di ciascuno di noi. Non sono condizioni uguali per tutti. Per fortuna, aggiungo. Nel lavoro, come nella vita, c’è chi scalpita e chi vuol stare più tranquillo. È giusto quindi che all’interno di una storia lavorativa ognuno possa ricontrattare quanto pattuito, e possa farlo indipendentemente dalle sorti di un collega pari livello. Altrimenti andrebbero a farsi friggere la formazione professionale, le skill aggiuntive, l’apprendimento di una lingua straniera aggiuntiva, e così via. 

Ecco, da questo punto di vista la direttiva UE 2023/970 è assai scivolosa e rischia l’appiattimento tra lavoratori. Un rischio possibile è che aziende, pubblico impiego e organizzazioni di diversa natura applichino alla lettera la norma: salari uguali per tutti e tanti saluti alla dialettica contrattuale dei lavoratori. Un po’ cinese come prospettiva, o no? 

Fortunatamente ci sono tre anni per il recepimento della norma e qualche spazio per migliorarla. 

Lunga vita, quindi, al gender equality, ma per favore no alle carriere per decreto.
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