Acciaio: contesto incerto e volatile. Domanda fiacca

 
Sono soprattutto geopolitiche le incertezze che stanno frenando la siderurgia nazionale ed europea: le variabili chiave sono i due conflitti in corso in Ucraina e in Medio Oriente, che hanno portato a deglobalizzazione e frammentazione delle catene del valore; pesano anche la crisi cinese e la perdurante inflazione. In questo contesto, nel 2024 la crescita dei settori che utilizzano l'acciaio dovrebbe nuovamente rallentare a livello europeo (+0,4% dal +0,6% del 2023 secondo Eurofer), a causa di una probabile flessione del settore automotive e nonostante il miglioramento dell’attività in quasi tutti i settori rispetto all’anno scorso. La domanda apparente di acciaio (valore che considera anche il ciclo delle scorte) è calata del 5,3% nel 2023 e si prevede in recupero del 7,6% nel 2024, ma le incognite restano molte.

Secondo quanto emerso dal webinar di siderweb MERCATO & DINTORNI, dedicato alla congiuntura della filiera dell’acciaio, sul mercato di materie prime e prodotti siderurgici i prezzi internazionali sembrano aver generalmente interrotto la fase di risalita, oppure avere scarso potenziale di ulteriore aumento. Lo ha spiegato Achille Fornasini, siderweb e StatLab Università degli Studi di Brescia. «I tassi di interesse relativamente alti – ha affermato – hanno progressivamente smorzato la predisposizione a fare scorte di materie prime. Tutto assume una connotazione tattica e dunque i “mini” rimbalzi di prezzo che notiamo sono giustificati dalla necessità di ricostituire stock, ma giusto il minimo indispensabile». «Gli Stati Uniti – ha proseguito – registrano una riduzione della crescita nell’ultimo trimestre dello scorso anno, anche se l’economia americana rimane “pimpante”. L’Europa registra un calo della produzione industriale. La Cina solo nell’ultima fase sta registrando qualche segnale di una modesta crescita». 

Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, ha affermato che «fare previsioni sul 2024 è difficile, la situazione è molto incerta e volatile. Le grandi incertezze sono soprattutto geopolitiche. Basti pensare all’aumento dei noli, a seguito della tensione sul Mar Rosso, che porta con sé il rischio di impulsi inflazionistici da rarefazione dell’offerta che avevamo visto nel Covid e che avevamo superato. La Germania, che è il nostro primo mercato, è in fase fortemente recessiva, con il suo modello, basato sull’energia a basso costo dalla Russia e l’export monstre in Cina, che è entrato in crisi. È un grosso problema per la manifattura italiana, che però fortunatamente è molto più diversificata e molto capace di export. La recessione tedesca e il venir meno del Superbonus 110% potrebbero essere compensati dai progetti del Pnrr. Abbiamo davanti due anni e mezzo di appalti. Bisognerà vedere quanto si riuscirà a mettere a terra, e qui ci sono difficoltà. Questo impulso di politica economica keynesiana sarebbe straordinariamente adatto a compensare la fase di rallentamento dell’economia». 

Quanto alla crisi dell’ex Ilva, il presidente di Federacciai ha sottolineato che non è troppo tardi per i tentativi di salvataggio e di rilancio dell’impianto di Taranto, ma che essi vanno «contestualizzati all’interno delle regole europee, che non condivido e contesto, ma che esistono e quindi vanno rispettate, sperando che possano essere cambiate. Parlo di CBAM e connessi, e in particolare della scomparsa delle quote ETS gratuite per le emissioni di CO2 per gli altiforni europei, con un décalage nel 2027-29, che renderà non più economica in Europa la produzione siderurgica da ciclo integrale». «L’ex Ilva, che dovrebbe produrre da piano industriale 6 milioni di tonnellate l’anno per essere in break-even – ha sottolineato Gozzi -, in caso di mancati interventi per la decarbonizzazione sarebbe costretta a pagare una volta terminate le quote gratuite ETS circa 1,2 miliardi di euro l’anno per l’acquisto di quote CO2, una cifra insostenibile che la porrebbe fuori mercato. Così come fuori mercato saranno tutti gli altiforni europei».

Per l’ex Ilva «non siamo favorevoli a una nazionalizzazione permanente, bensì a un intervento transitorio – ha detto ancora il presidente di Federacciai -. Lo Stato dovrebbe garantire gli investimenti per la decarbonizzazione, come stanno facendo tedeschi e francesi per le loro siderurgie». Un intervento dei privati sarebbe possibile, a patto che «venga fatta chiarezza su molti punti oscuri», a partire dai «debiti di Acciaierie d’Italia nei confronti dell’indotto, dei fornitori di energia… È chiaro che vadano pagati, non si può però chiedere che a farlo siano i privati che entrano. È poi necessaria una due diligence sugli impianti. Dal 2012 a oggi sono stati concentrati gli sforzi sull’ambientalizzazione del sito, riducendo gli investimenti per la manutenzione ordinaria. La sensazione è che lo stato degli impianti, upstream e downstream, non sia ottimale. Definito un piano industriale di rilancio e di decarbonizzazione i privati si devono fare carico della gestione del circolante e degli investimenti sugli impianti, al di là della decarbonizzazione. Credo che la siderurgia italiana, a partire dal grande produttore nazionale di piani che è Arvedi, possa pensare a un disegno di questo tipo. Credo che ci sia anche un dovere nazionale dei siderurgici italiani di aiutare il Paese in un momento di così grave difficoltà. Ma le cose vanno fatte con buonsenso, senza suicidarsi, non dimenticando la redditività e il ritorno economico, sia pure nel medio-lungo periodo».
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Italia Informa n° 2 - Marzo/Aprile 2024
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