60 anni senza Marilyn Monroe: da diva a mito

- di: Barbara Bizzarri
 
Fra il 4 e il 5 agosto 1962 vola via per diventare una leggenda, la più iconica, l’incarnazione del periodo d’oro di Hollywood, proprio lei che per farsi prendere sul serio dagli Studios aveva dovuto combattere fino alla fine. Marilyn se ne è andata come ha vissuto, nel mistero. Nessuno ha conosciuto i suoi pensieri più reconditi, “ho pensieri bellissimi che pesano come una lapide. Vi supplico, fatemi parlare”, scriveva e in una sua poesia rassicurava una bambola immaginaria, la sua creatura, quella che l’avrebbe consacrata all’immortalità: andremo lontanissimo. Lontano dalla schizofrenia della madre Gladys e dalle esigenze delle varie “zie” a cui era stata data in custodia quando Gladys era crollata sotto il peso della malattia e della fatica di vivere, lontano dall’orfanotrofio di Los Angeles e dalla violenza delle famiglie affidatarie da cui si era affrancata con un matrimonio procuratole da Grace McKee, ex collega e amica della madre, per non farla tornare in istituto.

 Era ancora Norma Jeane e aveva sedici anni: il prescelto, James Dougherty, ventuno. Per contribuire alle spese di casa va a fare l’operaia alla Radioplane, un fotografo la nota mentre impacchetta i paracadute, cambia lavoro, diventa una modella e sogna il cinema che la ricongiunge idealmente alla madre, montatrice che la chiama Norma in ossequio a un’attrice che le piaceva, e che la portava al cinema per sognare una vita più bella. Da Norma Jeane, stuprata a nove anni e sola al mondo nella città degli angeli, nasce Marilyn Monroe, destinata a vivere nell’immaginario collettivo in eterno. Dopo anni di lotte e umiliazioni, alla fine della sua vita era prossima a realizzare quanto aveva sempre desiderato: essere un’attrice dal valore riconosciuto, forte di un nuovo contratto finalmente milionario con la Fox che l’aveva licenziata per poi riassumerla alle sue condizioni, e contava i giorni dalla conferenza stampa che intendeva organizzare per “raccontare tutta la verità” sulle sue relazioni pericolose: i fratelli Kennedy, esponenti della mafia, contatti politici non graditissimi in tempi di guerra fredda. “Sconvolgerò il mondo intero”, annunciava.

Ingenua e indifesa fino alla fine, senza possibilità di uscirne fuori: alla fine magari è vero che l’infanzia ti plasma rimanendo incollata addosso tutta la vita. La sua, di vita, è stata costellata da grandi successi e rovinose cadute, lunghi trattamenti di psicoanalisi, crisi nervose e altri due matrimoni, con il campione di baseball Joe Di Maggio e con lo scrittore Arthur Miller, che per lei scriverà Gli Spostati, il suo ultimo film. Una vita movimentata, nella migliore partita giocata con le carte peggiori che si potessero ricevere. Da quel giorno di agosto si dipana sul filo della celluloide l’interrogativo che tormenta l’agente Dale Cooper in Twin Peaks di David Lynch, chi ha ucciso Marilyn Monroe? La diva era circondata da figure sinistre, ambigue. La governante Eunice Murray, enigmatica e sfuggente, che attribuisce ciò che sa “all’intuito caratteristico del suo segno zodiacale”.

Lo psichiatra Ralph Greenson, andato oltre ogni dettame della psicoanalisi, che l’aveva accolta nella sua casa nel transfert più pericoloso della storia, in un tale fallimento da far perdere fiducia nella psicoanalisi da qui all’eternità, e che quell’ultima notte era al 12305 di Fifth Helena Drive, nella villetta di Brentwood in fondo a un vicolo cieco, con all’ingresso quella mattonella di pessimo augurio cursum perficio, una casa che le aveva finalmente fatto pensare di avere qualcosa di suo, non il modesto appartamento la cui porta fu sfondata da un gelosissimo Joe Di Maggio avvisato dell’infedeltà mentre lei si appartava con Sinatra, un altro che si illudeva volesse sposarla e invece pare ne avesse fatto carne da macello al Cal Neva Lodge, casinò di cui era proprietario sulle rive del lago Tahoe in Nevada, durante il suo ultimo weekend, quello che uno dei suoi biografi, Donald Wolfe, definì il fine settimana del diavolo.

Al suo ritorno Hedda Hopper disse che giravano in città foto “interessanti” della diva priva di conoscenza, immagini compromettenti per impedirle di nominare ancora le sue frequentazioni politiche, di cui parlava troppo spesso, fantasticando di trasformarsi in una first lady dello spettacolo o della politica, per non essere più “un pezzo di carne”, come si sentiva trattare da quegli uomini che non la rispettavano, che non la amavano come avrebbe voluto, tutti tranne uno. Innamoratissimo, gelosissimo e destinato al tormento, l’unico che si ricorderà per sempre di lei deponendo rose rosse sulla sua tomba fino alla fine. La donna più desiderata del mondo era offesa nella casa sul mare a Malibu dell’attore Peter Lawford, che aveva sposato una Kennedy per poi ritrovarsi a morire alcolizzato e abbandonato da tutti, ma senza mai tradire il segreto della lussuosa villa imbottita di microspie che registravano gli incontri di Marilyn, e tante altre, con John e Robert Kennedy.

Gli apparati di sorveglianza e intercettazione sono una costante in tutte le case che Marilyn frequentava, o abitava: quando negli anni Settanta l’attrice Veronica Hamel acquistò, prima di una lunga serie di compratori, la casa di Brentwood, durante la ristrutturazione furono scoperti diversi dispositivi nel tetto e fra le mura. La diva era sfruttata per la sua bellezza, per il desiderio di amore che le faceva vedere un principe azzurro in ogni scopatore seriale, era sfruttata per i suoi pochi averi in confronto alle altre star di Hollywood, come la sua amica e collega Jane Russell che per lo stesso film, Gli uomini preferiscono le bionde, incassò un milione di dollari a fronte dei suoi duecentomila: Arthur Miller per concederle il divorzio si tenne il ranch che lei aveva comprato per entrambi nel Connecticut e vi si trasferì con la sua nuova moglie, fotografa di scena per Gli Spostati. Nella feroce parabola che accompagna la sua esistenza, fu stuprata perfino da morta, si dice, in cambio di una bottiglia di bourbon elargita a un custode compiacente e criminale, che aveva acconsentito anche a farla fotografare in obitorio. Vita costellata da mostruosità da una parte e illuminata dall’alone della star dall’altra in una dicotomia che continua a rapire le generazioni ipnotizzate dagli occhi tristi, dalla sensualità più innocente che si sia mai vista in una prigione voluta a tutti i costi e poi odiata come è sempre stata la fabbrica di sogni più crudele del mondo.

“Questa è Hollywood, continuate a sognare”, grida un uomo al termine di Pretty Woman, favola trentennale da sempre al top di incassi e spettatori mainstream e il prezzo del sogno si sa ma non si dice, Marilyn si limitava a commentare che a Hollywood pagano mille dollari per un bacio e pochi cents per l’anima. A chi le chiedeva conto delle calunnie che circolavano su di lei in città, rispondeva laconicamente, considerate la fonte. Sessant’anni senza Marilyn eppure tutti vorrebbero avere una parte di lei, che è stata imitata da tutti e che tutti fa sfigurare: di Marilyn Monroe ce n’è una sola. Billy Wilder, che l’aveva diretta anche in quel gioiello che è A qualcuno piace caldo, ricordava che “era sempre in ritardo, dimenticava le battute e allora? Se avessi voluto una puntuale e con la memoria da elefante avrei scritturato mia zia che vive a Vienna. Ma Marilyn è Marilyn ed è meravigliosa”.

“Sapevo di appartenere al pubblico e al mondo non per il talento o la bellezza, ma perché non ero mai appartenuta a niente o a nessuno”, diceva Marilyn e, come se sentisse di poter morire da un momento all’altro, chiedeva al suo truccatore di fiducia Allan Whitey Snider di truccarla ancora per un’ultima volta quando sarebbe morta, lui sbigottisce poi accetta pensando per tranquillizzarsi che non accadrà mai e invece accade e allora mantiene la promessa con il conforto di una bottiglia di whisky. Per arrivare ad essere il sogno di tutti, Norma Jeane accetta di diventare la bombshell di cui l’Hollywood dell’epoca ha disperatamente bisogno. Marilyn incarna il sogno della ragazza senza nome il cui unico problema sono le dita dei piedi senza smalto quando arriva l’idraulico, e poi vuole di più, cerca di migliorare, accetta il confronto, va all’Actors Studio che arricchirà da viva e da morta con i suoi lasciti, senza neanche rendersi conto, perché nessuno ci tiene a farglielo sapere nel caso avanzasse chissà quali pretese, quanto sia brava e carismatica tanto da far sparire perfino Laurence Olivier, principe rigido e impacciato quanto la ballerina è incantevole e disinvolta. Resta nell’immaginario collettivo come un sogno a portata di mano ma inafferrabile, l’ossessione di tutti, celebrata, cantata, dipinta, fotografata, oggetto di studio e di meraviglia. Ultima follia, dopo le foto di Steven Klein a Madonna per V Magazine in una rivisitazione superflua e stupidamente laida dello scenario della sua morte, quella di Kim Kardashian che al Met Gala si è presentata con l’abito indossato dalla divina per cantare Happy Birthday Mr. President lamentandosi per la dieta che ha dovuto subire per infilare il vestito, sforzo inutile perché è riuscita a danneggiarlo ugualmente, e di nuovo il mito rinverdisce e i fans insorgono, ma come ha osato questa volgare arricchita indossare i panni della leggenda, e soprattutto perché il collezionista che li ha pagati oltre quattro milioni di dollari ha avuto la pensata geniale di concederle il privilegio. Marilyn proprio adesso è ovunque, lei che è riuscita a piegare il mito fino a diventare tutt’uno con esso, eternamente giovane, eternamente meravigliosa, così come voleva essere.
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