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Bataclan, dieci anni dopo: Gaëlle e la banalità del male

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Bataclan, dieci anni dopo: Gaëlle e la banalità del male

Dieci anni dopo, la ferita non si è mai rimarginata. Né quella del corpo, attraversato da decine di operazioni chirurgiche, né quella dell’anima, che continua a convivere con il ricordo di quella notte in cui Parigi smise di essere la città della luce per trasformarsi in un inferno di piombo e terrore. Era il 13 novembre 2015. Al Bataclan suonavano gli Eagles of Death Metal“E pensare che fino a quel momento non li avevo nemmeno mai sentiti”, dice oggi Gaëlle, una delle sopravvissute. Lei era lì, accanto a Mathieu, il suo compagno, che sarebbe morto pochi minuti dopo. “Ci siamo presi le prime raffiche”, racconta.

Bataclan, dieci anni dopo: Gaëlle e la banalità del male

Tre uomini armati di kalashnikov, tre jihadisti pronti a morire e a uccidere in nome di un Dio deformato, aprirono il fuoco sulla folla. “Ho fatto finta di essere morta. Uno di loro mi è passato sopra senza nemmeno accorgersi che ero ancora viva”. È rimasta immobile, per due ore e mezza, tra i corpi senza vita. Quando finalmente ha potuto uscire, cominciava il suo calvario: “Ho subito 56 operazioni, ma so che dovrò farne altre per il resto della mia vita”.

Ma chi è Gaëlle? È una donna che quella sera aveva deciso di andare a divertirsi, a un concerto, senza immaginare che sarebbe diventata una sopravvissuta. Quel gesto semplice — la scelta di uscire, di condividere un momento con la persona che amava — è diventato segnato da un’immensità d’orrore che non avrebbe più potuto dimenticare.

La ferita invisibile
La voce di Gaëlle, oggi, non è quella di una vittima che chiede vendetta. È quella di chi ha deciso di attraversare il dolore per capire. Ha voluto incontrare un ex terrorista islamista. “È stato emotivamente molto intenso e forte”, racconta. Due ore di confronto, due ore in cui ha guardato negli occhi ciò che un decennio prima aveva distrutto la sua vita. “Gli ho chiesto del suo percorso, poi gli ho raccontato il mio, le operazioni, la ricostruzione del mio corpo. Mi sono ritrovata davanti una persona totalmente differente da quella che mi aspettavo. È stata un’esperienza perturbante”.

Gaëlle non parla di perdono, non pretende redenzioni. Ma cerca di capire se dentro la tenebra c’è ancora una scintilla di umano. “Volevo solo vedere se resta qualcosa di umano in chi ha provocato tutto quel male. Mi ha destabilizzato la sua normalità: un uomo qualunque, cresciuto in un quartiere difficile, con una famiglia e dei figli”.

La banalità del male, dieci anni dopo
E qui la storia personale di Gaëlle incrocia quella collettiva dell’Europa, che in questi dieci anni ha imparato a conoscere la banalità del male nel senso più crudele. Non il mostro con la barba e il kalashnikov, ma l’uomo normale, il vicino di casa che diventa carnefice, l’adolescente che si lascia sedurre da un’ideologia di morte. “È questa normalità che mi ha spaventato di più”, dice lei.

La ricostruzione fisica e quella psichica, per Gaëlle, avanzano insieme. “Quando un’operazione va bene mi sento meglio, quando va male ho delle ricadute. È necessario trovare un equilibrio”. Un equilibrio impossibile tra la vita di prima e quella di dopo, tra la voglia di vivere e la memoria del massacro.

Parigi e l’Europa, dieci anni dopo
Oggi, a dieci anni dal Bataclan, Parigi ha cambiato pelle. Le misure di sicurezza, i metal detector, le strade sorvegliate, la diffidenza che aleggia nei teatri, nei concerti, nei luoghi di incontro. L’Europa ha imparato a convivere con la paura, ma anche a trasformarla in memoria.

Gaëlle non vuole essere un simbolo, ma lo è. È la testimonianza viva di come la violenza cieca possa essere attraversata senza esserne corrotti. La sua è una storia di resilienza, di una donna che ha scelto di restare, di ricostruire pezzo per pezzo — corpo e anima — per dimostrare che il male, anche quando sembra trionfare, può essere guardato in faccia senza soccombere.

E quando parla di equilibrio, di ricostruzione, di “normalità che destabilizza”, sembra evocare anche l’Europa di oggi: ferita, scossa, ma ancora viva. Forse meno ingenua, certo più consapevole.

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