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Venezuela, Trump alza la posta: cieli chiusi e ombre di guerra

- di: Bruno Legni
 
Venezuela, Trump alza la posta: cieli chiusi e ombre di guerra
Venezuela, Trump alza la posta: cieli chiusi e ombre di guerra
Washington prepara la “fase due” contro il regime di Nicolás Maduro: designazione terroristica per il Cartel de los Soles, portaerei nel Caribe, avvisi di pericolo ai piloti e voli internazionali sospesi. Mentre Donald Trump agita il bastone della forza e offre la carota di un possibile negoziato, l’America Latina e l’Europa temono che il Venezuela diventi il prossimo fronte caldo della stagione trumpiana.

La fase due della campagna americana

A Washington lo chiamano già il passo decisivo della “fase due” contro il Venezuela: la designazione del Cartel de los Soles come organizzazione terroristica straniera, con la conseguente possibilità di colpire conti, infrastrutture e persone legate al cerchio di Nicolás Maduro come se si trattasse di un gruppo jihadista. È la traduzione in pratica della dottrina trumpiana che mette sullo stesso piano cartelli latinoamericani e organizzazioni terroristiche globali.

L’operazione, preparata da mesi, non è solo giuridica. È il perno di una strategia più ampia, che combina pressione militare, guerra finanziaria e operazioni coperte. Secondo fonti di intelligence statunitensi, la Central Intelligence Agency ha già avuto il via libera per azioni sotto traccia sul territorio venezuelano, con l’obiettivo dichiarato di indebolire la catena di comando che protegge il presidente e la sua cerchia di generali.

Il segretario alla Difesa Pete Hegseth lo ha riassunto in modo brutale: “Questa etichetta ci apre tutta una nuova gamma di opzioni”, ha spiegato, lasciando intendere che droni, forze speciali e cyber-attacchi potrebbero presto entrare nel ventaglio degli strumenti disponibili contro Caracas.

Trump, come sempre, procede su due binari. Da un lato lascia filtrare che gli Stati Uniti potrebbero “avere conversazioni” con Maduro, persino offrirgli una via d’uscita in esilio, magari in un Paese amico, se decidesse di farsi da parte. Dall’altro, alimenta l’idea che nessuna opzione sia esclusa, inclusi attacchi contro infrastrutture strategiche, porti, basi aeree e asset petroliferi.

La guerra dei cieli sopra Caracas

Il segnale più visibile della nuova escalation non arriva però dalle sale operative del Pentagono, ma dal cielo. La Federal Aviation Administration (Faa) ha diffuso un avviso globale ai piloti in cui parla di “situazione potenzialmente pericolosa” nello spazio aereo venezuelano, invitando alla massima cautela su ogni rotta che attraversi il Paese e le sue immediate vicinanze.

Nel documento, rivolto alle principali compagnie di linea e ai vettori cargo, l’agenzia ricorda che “le minacce possono riguardare gli aeromobili a qualunque quota, in fase di sorvolo, decollo o atterraggio”. Tradotto: il rischio di un incidente, di un errore o di un atto ostile non è più considerato remoto. L’aumento delle attività militari, delle esercitazioni navali e delle operazioni antinarcotici nella regione rende lo spazio aereo venezuelano un’area a forte criticità.

Nel giro di poche ore, il segnale è stato raccolto da una serie di vettori internazionali. La spagnola Iberia, la portoghese TAP, la colombiana Avianca, la Caribbean di Trinidad, la brasiliana Gol e la cilena Latam hanno sospeso i collegamenti da e per Caracas, annunciando verifiche quotidiane sul quadro di sicurezza. Per un Paese già isolato dal punto di vista finanziario, vedere i cieli svuotarsi è l’ennesimo colpo alla propria immagine e alla mobilità della popolazione.

Non tutte le compagnie, è vero, hanno preso la stessa decisione. Alcuni vettori regionali continuano a operare, ma riducendo frequenze e adottando procedure di sorvolo più conservative. In concreto, il Venezuela si risveglia in un quadro in cui i rischi percepiti superano di gran lunga le certezze, e ogni decollo viene valutato come un azzardo.

Portaerei nel Caribe e vecchi fantasmi latinoamericani

Mentre le compagnie aeree chiudono le rotte, il Pentagono apre nuove direttrici militari. Nel cuore dei Caraibi è arrivata la portaerei USS Gerald R. Ford, il gigante della US Navy, affiancata da cacciatorpediniere, unità anfibie e navi d’appoggio. Nelle ultime settimane sono aumentate le esercitazioni congiunte, i sorvoli dei bombardieri strategici e le operazioni contro presunte imbarcazioni di narcotrafficanti.

Secondo le fonti ufficiali americane, si tratta di colpire le reti di traffico di droga che attraversano la regione. Ma a Caracas il racconto è radicalmente diverso: il governo parla apertamente di un tentativo di “accerchiamento” e mette in guardia da un possibile “attacco preventivo” mascherato da operazione antidroga. “Non trascinate l’America Latina in una nuova guerra senza fine”, ha avvertito Maduro in un recente comizio, evocando il fantasma dei conflitti che hanno segnato Medio Oriente e Afghanistan.

Anche i Paesi vicini osservano con crescente inquietudine. Il presidente brasiliano Lula ha dichiarato di essere “molto preoccupato” per il concentrarsi di mezzi militari statunitensi vicino alle coste venezuelane, annunciando l’intenzione di parlarne direttamente con Trump. Per un gigante regionale che ha fatto del multilateralismo il proprio marchio di fabbrica, l’idea di una guerra nel “cortile di casa” è quanto mai indigesta.

In parallelo, un gruppo di parlamentari e leader europei ha diffuso un appello che si riassume in uno slogan semplice e diretto: “No war on Venezuela”. Un messaggio che fotografa bene il clima nel Vecchio continente, già alle prese con l’inaffidabilità dell’America trumpiana in Ucraina e in Medio Oriente e ora costretta a fare i conti con un nuovo fronte di instabilità alle porte dell’Atlantico.

Il cartello dei generali e l’etichetta del terrorismo

Il cuore della “fase due” è la scelta di presentare il Cartel de los Soles come una struttura terroristica a guida Maduro. Nella narrativa dell’amministrazione Trump, il presidente venezuelano non è più solo un autocrate che ha portato il Paese al collasso, ma il capo di una rete criminale che commercia droga, armi e influenza politica a livello transnazionale.

Ma su questo punto il dibattito tra analisti è serrato. Diversi studiosi e rapporti indipendenti riconoscono che l’apparato venezuelano ha beneficiato dei flussi di cocaina che attraversano il Paese, ma contestano l’idea di un cartello monolitico controllato personalmente da Maduro. In altre parole, esiste un intreccio tra pezzi dello Stato, forze armate e traffici illegali, ma la struttura è ben più frammentata di quanto suggerisca il racconto politico di Washington.

L’etichetta terroristica, tuttavia, ha un vantaggio: consente agli Stati Uniti di usare armi giuridiche e finanziarie più radicali, congelando asset, imponendo sanzioni secondarie a banche e intermediari, allargando il perimetro delle persone e delle aziende considerate “contaminate” dal regime. Il rischio, per l’economia venezuelana, è di precipitare in un isolamento ancora più profondo, con effetti a catena sulla popolazione già stremata da iperinflazione, povertà e migrazioni di massa.

Non è un dettaglio: negli ultimi anni Washington ha progressivamente ampliato il concetto di “narco-terrorismo” per colpire non solo i tradizionali cartelli messicani, ma anche reti criminali nate in Venezuela e poi propagate nel continente. In questo contesto, il confine tra lotta alla droga e cambio di regime diventa sempre più labile.

Maduro tra propaganda interna e ricerca di sponde esterne

Sul fronte interno, Maduro gioca la carta che conosce meglio: la mobilitazione patriottica. Ogni nuovo avvertimento della Casa Bianca viene trasformato in un tassello della narrativa della “resistenza bolivariana” contro l’imperialismo yankee. Le immagini dei comizi di piazza, con il leader che balla musica popolare e invita a “difendere la pace”, sono pensate per mostrare un Paese che non si lascia intimidire.

Allo stesso tempo, il governo venezuelano cerca sponde internazionali. Negli ultimi mesi Caracas ha intensificato i contatti con Russia, Cina e Iran, alla ricerca di garanzie politiche, sostegno economico e, se necessario, forniture militari. Il messaggio è chiaro: se Trump vuole trasformare il Venezuela nel laboratorio della sua nuova dottrina sul “narco-terrorismo”, non troverà un regime isolato ma un sistema di alleanze pronto a reagire.

Nei corridoi della diplomazia circola l’ipotesi di un negoziato controllato che possa offrire a Maduro una via di uscita indolore, in cambio di una transizione garantita da Paesi terzi. Ma per ora, tanto a Caracas quanto a Washington, prevale la logica della pressione massima. E più aumenta la pressione, più la finestra per una soluzione diplomatica si restringe.

L’America di Trump e il “cortile di casa” latinoamericano

Dietro la crisi venezuelana c’è un dato strutturale che in America Latina conoscono bene: per la Casa Bianca targata Trump, la regione resta un “cortile di casa” dove sperimentare vecchie e nuove forme di interventismo. Dal muro con il Messico alla crociata contro i migranti, fino alla guerra ai cartelli, il filo conduttore è sempre lo stesso: la difesa degli interessi statunitensi si traduce in una combinazione di retorica muscolare e mosse unilaterali.

Il problema, per gli alleati, è la cronica imprevedibilità del presidente. In un giorno Trump apre al dialogo, il giorno dopo minaccia attacchi “fulminei”; promette di difendere la democrazia, ma corteggia governi autoritari quando gli conviene; bombarda a parole il multilateralismo, ma pretende che gli altri Paesi ne accettino le conseguenze. Una strategia di divide et impera che non risparmia neppure l’Unione europea e che ora viene proiettata su scala latinoamericana.

In questo quadro, il Venezuela diventa anche un messaggio per il resto del continente: chi sfida apertamente Washington rischia di finire nel mirino non solo delle sanzioni, ma anche di operazioni coperte e di un possibile intervento armato. Un avvertimento che pesa sulle scelte di molti governi, timorosi di trovarsi nel mirino della prossima “fase due”.

Un equilibrio pericoloso sul filo dell’incidente

Tra cieli che si chiudono, portaerei che si avvicinano e designazioni terroristiche, il rischio più concreto nelle prossime settimane è quello di un incidente non voluto. Un radar che interpreta male un segnale, un velivolo civile scambiato per un bersaglio, una nave che reagisce in modo sproporzionato a un avvicinamento sospetto: basta poco perché la tensione si trasformi in scontro aperto.

Per questo, al di là della retorica, una parte della comunità internazionale insiste su due priorità: mantenere canali di comunicazione militari e diplomatici tra Stati Uniti e Venezuela, e rafforzare il ruolo di mediazione di Paesi terzi, a partire da quelli latinoamericani non allineati e dall’Unione europea. Nessuno, almeno ufficialmente, dichiara di volere una guerra nel cuore del continente.

La sensazione, però, è che la nuova “fase due” trumpiana sia costruita per tenere il mondo con il fiato sospeso: minacciare abbastanza da piegare il nemico, senza mai escludere davvero il passo successivo. È lo stile di un’America sempre più estrema e illiberale, che brandisce il diritto internazionale come un’arma selettiva e apre un fronte di instabilità in più, in una regione già segnata da crisi sociali e migrazioni di massa.

Se la partita si chiuderà con un accordo di uscita per Maduro o con un nuovo conflitto aperto nel “cortile di casa” degli Stati Uniti lo diranno i prossimi mesi. Di certo, il Venezuela è già diventato il banco di prova di una stagione in cui la linea rossa tra lotta al narcotraffico, guerra ibrida e cambio di regime è sempre più sottile.

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