Università, la fuga dei cervelli costa all'Italia l'1% del PIL ogni anno

- di: Barbara Bizzarri
 
Una situazione nota da sempre e che ora assume contorni più drammatici: le nostre Università, riconosciute al top per alcune materie, come La Sapienza di Roma, riconosciuta al top per gli studi classici dal World University Rankings by Subject, preparano giovani che andranno ad arricchire il Pil di qualche altro Paese mentre all’Italia la fuga di cervelli costa l’1% di Pil ogni anno, a cui si aggiunge la spesa per la formazione, stimata, secondo la Fondazione Nord Est, ad almeno 300mila euro per laureato: denaro che l’Italia regala ad altri Paesi in grado di attrarre e valorizzare i talenti come qui, purtroppo e da decenni, non si è in grado di fare. Questa è la drammatica fotografia di un Paese in cui le nascite sono crollate (-400mila nati nel 2022) e i giovani se ne vanno, per cercare fortuna e una migliore qualità di vita altrove. Non c’è da stupirsi. Tagli continui, stipendi fermi da un trentennio, welfare traballante costituiscono una ben magra attrattiva e chi può fa le valigie in fretta, generalmente subito dopo l’agognata laurea.

Università, la fuga dei cervelli costa all'Italia l'1% del PIL ogni anno

Secondo l’elaborazione dei dati del Ministero dell’Università e Istat, la ben nota fuga di cervelli interessa tra il 5% e l’8% dei laureati italiani. Si stimano 248 mila laureati esportati nell’intero periodo 2012-2021 e, dalla pandemia, saldo negativo tra chi parte e chi resta: ben 79 mila persone in meno tra i 25 e i 34 anni e armate di laurea. La mobilità non è un problema per un Paese che vive di connessioni e collaborazioni internazionali, ma l’Italia perde risorse già scarse: i laureati sono il 28% contro una media Ocse del 40% e, oltre a far emigrare i propri, L’Italia non ne attira dall’estero.  Il fenomeno è mitigato, nel Nord del Paese, dagli arrivi di giovani laureati dal Sud, però lo stesso non avviene nel Mezzogiorno, funestato dal cosiddetto «brain drain», il drenaggio di cervelli: nel Mezzogiorno e nelle Isole, dal 1995 ad oggi mancano all’appello oltre 1,6 milioni di under 40, come se, in oltre 25 anni, fossero sparite due città come Napoli e Palermo.

Quelli che scappano sono, soprattutto, persone istruite e qualificate: medici, ingegneri e specialisti IT e, in cima alle ragioni della “fuga” svettano, prevedibilmente, retribuzioni e prospettive di carriera. Da neolaureato, chi fa le valigie a un anno dal titolo ha una retribuzione mensile media di circa 1.963 euro netti, contro i 1.384 euro percepiti in Italia. Dopo cinque anni, il gap cresce: più di 2.352 euro all’estero contro i circa 1.600 in Italia. Pesa poi la stabilità contrattuale: fuori dall’Italia, ad esempio nei Paesi Bassi, in Svezia e in Norvegia, c’è una minore incidenza del lavoro a partita iva e i contratti a tempo indeterminato si attestano per il 51,8% all’estero, mentre in Italia la percentuale resta stabile al 27,6%.

Tra chi decide di spostarsi all’estero per motivi lavorativi, ci sono in genere i primi della classe. Nel report 2022 di Almalaurea si legge che: “sono tendenzialmente più brillanti, in particolare in termini di voti negli esami e regolarità negli studi, rispetto a quanti decidono di rimanere in madrepatria; e ciò è confermato sia tra i laureati a un anno sia tra quelli a cinque anni”. Tra i laureati di secondo livello del 2016, il 63,1% degli occupati all’estero mostra un punteggio negli esami più elevato rispetto alla mediana dei laureati del proprio corso di laurea (la quota è pari al 51,7% tra gli occupati in Italia). “Anche in termini di regolarità si evidenziano interessanti differenze: l’84,8% di chi lavora all’estero ha conseguito il titolo entro il primo anno fuori corso, rispetto al 78,2% rilevato tra chi lavora in Italia”, aggiungono i ricercatori: dati che dovrebbero indurre a una seria riflessione sul futuro lavorativo italiano.

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