Istanbul in piazza per Imamoglu: il quinto giorno di proteste scuote la Turchia
- di: Redazione

È il quinto giorno di proteste a Istanbul. Un’ondata che parte dal cuore pulsante della città e si allarga come un’eco rabbiosa verso i quartieri periferici, risalendo poi a toccare Ankara, Smirne e altre grandi città. In strada ci sono studenti, donne, sindacalisti, cittadini comuni. Il motivo: l’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu. L’uomo che per molti turchi rappresenta l’unica vera alternativa a Recep Tayyip Erdogan. L’uomo che aveva strappato la metropoli al partito del presidente, e che ora viene fermato, ancora una volta, da un tribunale.
Istanbul in piazza per Imamoglu: il quinto giorno di proteste scuote la Turchia
Ekrem Imamoglu è stato condannato a due anni e sette mesi con l’accusa di “insulto a funzionari pubblici”. Una motivazione che appare, anche agli occhi dell’opposizione più moderata, come un pretesto per eliminarlo dalla scena politica. Con questa condanna, infatti, Imamoglu viene automaticamente interdetto dai pubblici uffici. Non potrà più candidarsi. Non potrà più guidare la città che ha vinto nel 2019 e che aveva difeso con una vittoria ancora più netta dopo che Erdogan aveva chiesto di rifare le elezioni.
Da allora è iniziata una lenta ma costante campagna giudiziaria e politica contro di lui. Prima le indagini sulle spese comunali, poi le accuse di aver assunto personale vicino al movimento Gulenista, considerato responsabile del tentato golpe del 2016. Ora la condanna per una frase detta in conferenza stampa tre anni fa. Tutto sembra avere lo stesso obiettivo: cancellarlo dal campo, impedirgli di essere il candidato dell’opposizione alle prossime presidenziali.
Le proteste: Gezi Park ritorna nei canti
Le piazze di Istanbul in questi giorni somigliano a quelle del 2013. Gezi Park, piazza Taksim, le cariche della polizia, le bandiere rosse, le canzoni di protesta, gli slogan gridati dai balconi. È un déjà vu che non tutti si aspettavano. La Turchia negli ultimi dieci anni si è abituata a un dissenso silenziato, a oppositori che finiscono in carcere, a un’informazione sempre più allineata al governo. Ma l’arresto di Imamoglu ha fatto saltare il tappo.
“Non lo facciamo solo per lui, lo facciamo per noi”, dicono alcune giovani manifestanti intervistate da giornalisti locali. Perché la sensazione è che stavolta la posta in gioco sia più ampia: il diritto di scegliere, di votare, di credere che la politica possa ancora cambiare le cose.
Un’opposizione che si ricompatta?
Le proteste hanno avuto anche un effetto collaterale inaspettato: hanno ricompattato l’opposizione. Il Partito Repubblicano (CHP), la sinistra curda dell’HDP, e altri partiti minori si sono ritrovati uniti nel denunciare la gravità del gesto del governo. E sebbene le elezioni siano ancora lontane, la figura di Imamoglu appare sempre più come il punto di coagulo di un fronte anti-Erdogan che potrebbe sfidare davvero il presidente per la prima volta da anni.
Ma la strada è ancora lunga e piena di ostacoli. L’apparato giudiziario, le televisioni, l’apparato repressivo dello Stato restano sotto il controllo dell’AKP, il partito di Erdogan. Le proteste potrebbero essere represse, i leader dell’opposizione perseguitati, gli spazi democratici ulteriormente ridotti.
Erdogan guarda e aspetta
Erdogan, per ora, non parla. Osserva. Come fece nel 2013, lasciando che fosse la polizia a gestire le proteste. Ma anche questa è una scelta politica. Perché mentre il mondo guarda alla Turchia con preoccupazione, e mentre gli Stati Uniti e l’Unione Europea chiedono chiarimenti, il presidente turco sa che ogni giorno di caos logora anche chi protesta. E sa che la macchina del potere, se ben oliata, è in grado di sopravvivere a tutto.
Ma qualcosa, in questi giorni, si è rotto. E non solo tra le strade di Istanbul. Anche dentro la coscienza collettiva del Paese. Perché arrestare un sindaco democraticamente eletto è una ferita che resta. E che potrebbe trasformarsi, da qui ai prossimi mesi, in un’altra storia ancora.