L’ultima trovata di Benjamin Netanyahu e Donald Trump per risolvere la questione palestinese sembra uscita da un manuale di pulizia etnica con copertina dorata: un piano che, secondo il premier israeliano, rappresenta un’idea “straordinaria” per il futuro della Striscia di Gaza.
Trump e Netanyahu, l’idea straordinaria di un esodo forzato da Gaza
Il presidente americano, tornato alla Casa Bianca con la promessa di ristabilire “ordine” in Medio Oriente, ha lanciato la proposta senza nemmeno discuterla con i suoi consiglieri o con il governo israeliano. Ma l’idea, che prevede la “partenza volontaria” dei palestinesi da Gaza, si è immediatamente allineata alle ambizioni di Tel Aviv: spingere la popolazione all’esodo in massa, un modo elegante per non dire espulsione forzata.
L’evacuazione volontaria secondo Netanyahu
L’IDF (Forze di Difesa Israeliane) starebbe preparando un piano per agevolare questo esodo “volontario” che rientra in una strategia più ampia: ridurre la presenza palestinese nella Striscia, frammentare ulteriormente la comunità araba e, in prospettiva, ridisegnare la mappa della regione senza il peso di una popolazione che da decenni resiste sotto blocco e bombardamenti.
Per Netanyahu, che deve mantenere il sostegno della destra ultranazionalista mentre il fronte interno traballa tra proteste e accuse di corruzione, l’idea suona come musica: meno palestinesi a Gaza significa meno resistenza, meno problemi politici e, in prospettiva, un controllo più agevole del territorio.
Trump, Gaza e la riconquista del consenso
Dall’altro lato dell’Atlantico, Trump non ha perso tempo a rilanciare un’agenda che parla direttamente al suo elettorato più radicale. Dopo aver riconquistato la Casa Bianca con una campagna all’insegna della forza e del primato americano, il presidente vuole consolidare il suo consenso presso le lobby filo-israeliane e i cristiani evangelici, che vedono nella riduzione della presenza palestinese una soluzione auspicabile.
A livello geopolitico, la sua amministrazione sta cercando di riaffermare la leadership americana nella regione dopo anni di caotico disimpegno. L’appoggio incondizionato a Israele è uno dei pilastri di questa strategia, e la proposta di un “esodo volontario” da Gaza rientra perfettamente nel disegno di una pace imposta con la forza.
Dove dovrebbero andare i palestinesi?
La domanda più ovvia è: dove dovrebbero andare gli oltre due milioni di abitanti della Striscia? Il piano di Netanyahu non lo specifica, ma lascia intendere che la comunità internazionale, ancora una volta, dovrebbe farsi carico dell’“emergenza umanitaria” creata dalle politiche israeliane. Si è già parlato di Egitto, di Paesi arabi del Golfo o addirittura di trasferimenti in nazioni terze lontane dal Medio Oriente.
L’idea di “trasferimenti volontari” non è nuova: già in passato esponenti della destra israeliana avevano proposto incentivi economici per spingere i palestinesi a lasciare i Territori. La differenza, oggi, è che l’operazione si inserisce in un contesto di guerra permanente, con un’accelerazione del processo di dislocazione forzata sotto il ricatto delle bombe e della fame.
L’Occidente tra imbarazzo e complicità
E l’Europa? E l’ONU? Silenzio assordante. Nessun governo occidentale, almeno per ora, ha osato condannare apertamente questa ipotesi. Il timore è che dietro la retorica della “partenza volontaria” si celi un nuovo Nakba, una pulizia etnica mascherata da soluzione umanitaria.
Se il piano dovesse prendere forma, saremmo di fronte a uno degli eventi più gravi degli ultimi decenni in Medio Oriente: un trasferimento forzato di massa sotto la minaccia militare, mentre il mondo assiste distratto. Il tutto nel solco della realpolitik israeliana, che da anni prova a risolvere la questione palestinese con il metodo più antico e brutale: cancellarne l’esistenza.