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Trump si piega a Pechino: la Cina vince la guerra delle terre rare

- di: Bruno Coletta
 
Trump si piega a Pechino: la Cina vince la guerra delle terre rare
Dazi al 200%, poi il gelo: Pechino risponde col blocco dei materiali strategici. Trump telefona, la Cina non risponde. Alla fine cede lui.

Dazi e arroganza: l’offensiva americana che si è rivoltata contro

Era il marzo 2025 quando Donald Trump, tornato alla Casa Bianca, ha deciso di raddoppiare la sua crociata protezionista. L’obiettivo dichiarato era chiaro: fermare la dipendenza da Pechino, riportare la manifattura in patria, “colpire al cuore chi sfrutta l’America da troppo tempo”, come dichiarato alla CPAC del 3 marzo.

In una conferenza stampa tenuta a Palm Beach il 5 marzo, l’ex tycoon ha annunciato nuovi dazi fino al 200% su una lunga lista di beni cinesi: veicoli elettrici, semiconduttori, pannelli solari, componenti per batterie, telecomunicazioni. “Non lasceremo che la Cina ci rubi il futuro”, ha tuonato.

Ma questa volta, la Cina non ha incassato in silenzio. Ha reagito con una strategia chirurgica: nessuna risposta plateale. Solo un documento asciutto, firmato il 4 aprile: dazi del 34% su tutte le merci statunitensi e stop immediato all’esportazione di terre rare e supermagneti. Il messaggio implicito: se alzi troppo la voce, noi ti stacchiamo la spina.

La mossa cinese: silenziosa, micidiale, devastante

Per chi conosce l’economia globale, il significato è chiarissimo: le terre rare non sono rare per abbondanza, ma per il controllo. La Cina detiene circa il 90% della raffinazione globale e il 95% della produzione dei magneti permanenti, essenziali per motori elettrici, radar, aerospazio, chip e armamenti.

Nei giorni successivi al blocco, l'effetto è stato immediato. Ford ha fermato temporaneamente la produzione di auto elettriche in Michigan e Ohio. General Electric ha chiesto deroghe d’emergenza. Bosch ha interrotto contratti in Cina. BMW ha registrato ritardi a catena. Il ministro tedesco dell’Economia ha parlato di “interruzione brutale delle forniture critiche”.

Non è solo industria pesante. Anche la difesa è entrata in allarme: droni militari, tecnologie stealth, radar a lungo raggio, sistemi di guida missilistica – tutti dipendono da materiali che ora non arrivano più.

Il silenzio di Pechino e le telefonate disperate di Trump

La Casa Bianca si è mossa nel panico. Non ufficialmente, ma da fonti diplomatiche ben informate emerge che tra aprile e maggio Trump ha tentato almeno tre volte di contattare la leadership cinese per “normalizzare la situazione”. Ma da Pechino non è mai arrivata risposta.

“Eravamo pronti a un dialogo”, ha detto il portavoce del ministero degli Esteri cinese il 9 maggio, “ma non a trattare sotto minaccia”.

Secondo quanto riportato da fonti di stampa asiatiche, il governo cinese ha scelto il silenzio strategico: nessun tweet, nessuna replica incendiaria, solo misure tecniche efficaci e letali. Ha lasciato che a parlare fossero le linee produttive ferme negli Stati Uniti e le proteste delle lobby industriali a Washington.

La Casa Bianca perde il controllo: sospesi i limiti sui chip

A fine maggio, nel tentativo di recuperare terreno, l’amministrazione Trump ha fatto la prima mossa di ritirata: ha sospeso temporaneamente le restrizioni sull’esportazione verso la Cina dei chip H20 di Nvidia, tra i più avanzati per IA e difesa.

Allo stesso tempo, il Dipartimento del Commercio ha allentato controlli su wafer e macchinari litografici, sperando in un gesto di apertura. Ma la Cina non ha mollato: “Riapriremo il dialogo solo se le condizioni lo consentono. La stabilità non è unilaterale”, ha dichiarato il 3 giugno il viceministro del Commercio cinese.

L’accordo di Londra: una resa diplomatica camuffata da tregua

L’11 giugno, a margine del vertice OCSE a Londra, si arriva a un’intesa. Gli Stati Uniti ottengono la ripresa graduale delle esportazioni di terre rare, ma devono pagare pegno:

  • Stop ai nuovi dazi su batterie e semiconduttori
  • Sospensione delle restrizioni tecnologiche già imposte a Huawei e SMIC
  • Facilitazioni sui visti a ricercatori cinesi nel settore quantistico

L’accordo viene presentato come “un’intesa equilibrata”, ma la realtà è chiara: la Cina ha ottenuto tutto quello che voleva, senza mai abbassare la testa.

Lo stesso Trump, parlando il giorno dopo a Mar-a-Lago, ha tentato di vendere la vicenda come “una nuova vittoria del mio stile negoziale”. Ma le borse asiatiche hanno festeggiato, quelle americane no.

Due commensali e un piatto freddo: l’Europa servita in silenzio

E l’Europa? Alla tavola dei vincitori si siedono Stati Uniti e Cina. L’uno perché ha riconosciuto la forza dell’altro. L’altro perché ha usato con intelligenza le armi del XXI secolo: supply chain, tecnologia, diplomazia silenziosa.

L’Europa è stata invitata al banchetto, sì. Ma non per gustare i frutti del compromesso. Solo per farne parte come ingrediente. Come pietanza.

“Questa guerra commerciale mostra che chi controlla le materie prime comanda il mondo”, ha dichiarato un think tank tedesco. “E l’Europa, senza autonomia strategica sulle terre rare, resta vulnerabile come nel 2022 per il gas”.

Anche Thierry Breton ha dovuto ammetterlo: “Siamo ancora dipendenti. Dobbiamo svegliarci, e in fretta”.

Il vero sconfitto: l’idea americana di dominio

Trump aveva promesso di spezzare l’arroganza cinese. Ma si è trovato di fronte una Cina fredda, razionale, inamovibile. Ha lanciato i dazi più alti mai visti dal 1971. Ma è stato costretto a richiamare Pechino. Non per sfidarla. Per chiederle una tregua.

Alla fine, chi ha vinto? La Cina ha mantenuto il punto senza mai cedere pubblicamente. Gli Stati Uniti hanno fatto concessioni e limitato le proprie ambizioni.

È un messaggio forte. Non solo per Washington. Ma per l’intero Occidente: le guerre economiche non si vincono con le dichiarazioni, ma con il controllo delle risorse, delle rotte, dei dati.

E oggi, chi controlla le materie prime strategiche, può perfino permettersi il lusso di ignorare le chiamate della Casa Bianca.

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