L'Associazione per lo Sviluppo dell’Industria del Mezzogiorno (SVIMEZ) ha lo scopo di promuovere, nello spirito di una efficiente solidarietà nazionale e con visione unitaria, lo studio particolareggiato delle condizioni economiche del nostro Mezzogiorno con lo scopo di proporre concreti programmi di azione e di opere che mirano a creare e a sviluppare nelle regioni meridionali quelle attività industriali che meglio rispondano alle esigenze accertate. Per il conseguimento delle sue finalità l’Associazione promuove iniziative idonee a garantire la costante collaborazione con gli organi dello Stato e con le regioni meridionali. Il problema della industrializzazione del Sud è dunque posto dalla Svimez al centro della politica economica nazionale, nella convinzione che da esso non si può prescindere se si vuole ridurre progressivamente e alla fine eliminare il divario Nord-Sud.
Presidente l’ultimo rapporto Svimez offre un quadro davvero impressionante e impietoso sulla situazione socio-economica del Sud tra spettro recessione e spopolamento. Con un linguaggio netto parlate di “ultima chiamata”: a chi è rivolta e chi deve rispondere?
Ovviamente, in primo luogo alla “politica”. Ci sono state frequenti altre “chiamate” senza risposte sia a livello locale che nazionale. Una sorta di dialogo tra sordi nel quale era del tutto evidente che dava fastidio il solo evocare il problema. Credo, in particolare, che abbia dato particolare fastidio il fatto che la SVIMEZ ha sempre denunciato la pratica di relegare il tema confinandolo a scala locale; quasi fosse un incomprensibile intralcio nel funzionamento di una macchina che nel complesso aveva una sua indubbia vitalità. Disturbava appunto la riottosa propaggine territoriale incapace di imparare “a crescere al traino di splendide locomotive”. Noi dicevamo da anni che le locomotive più che trainare estraevano linfa vitale dai vagoni.
Se questa è la situazione e i dati, nella loro freddezza lo confermano, da dove ripartire, quali priorità scegliere prima che sia troppo tardi? Viene indicato un piano straordinario di investimenti pubblici, in quali settori?
Ogni governo ha annunciato “piani straordinari”. In realtà di straordinaria si è vista soprattutto la consolidata capacità di considerare il Sud una cosa a parte, una sorta di oggetto, fin dall’epoca della cosiddetta Nuova Programmazione (1998), affidato alle cure delle politiche della UE per la coesione. L’interesse nazionale si è rapidamente dileguato; anzi è stata sua cura requisire anche una quota non secondaria dei fondi europei. Di fatto il sempre più debole “oggetto” via via più problematico si è trasformato in un imbarazzante vuoto a perdere. E la vicenda dell’Autonomia differenziata è la logica conclusione di un approccio culturale che vede nel Sud -al meglio- una Provincia subordinata non pienamente degna di pari diritti di cittadinanza. Con l’autonomia differenziata la confederazione del Nord avrebbe, per così dire, ricostituito il “vicereame” del Sud.
Ma di fronte a questa realtà va sottolineata l’amara constatazione che gli investimenti pubblici nel Meridione, negli ultimi anni, sono diminuiti. Di chi la responsabilità? E poi (come Lei sottolinea) se fosse stato rispettato il parametro del 34% della spesa per investimenti nel Meridione ci sarebbero stati 300.000 disoccupati in meno. È da attribuirsi più a miopia, a superficialità o a entrambe?
C’è indubbiamente una incredibile miopia e anche una buona dose di inconsapevole autolesionismo anzitutto della Classe Dominante (quella settentrionale che dal 1993 con l’abolizione dell’intervento straordinario ha instaurato una ferrea egemonia formalizzata -appunto dal 1998- dall’ ossessiva proposta di un localismo didascalico). L’impegno è stato dedicato al poco costoso ma intensivamente burocratico compito di insegnare al Sud la buona educazione che domina(va) nei mitici Distretti industriali, oggi in disuso con il rischio di passare ora a coltivare il mito, nuovo e molto più fragile anche per il Nord, delle “catene del valore”.
Non ha avuto finora alcuna attenzione l’evidenza che, dato il feroce razionamento subito, la spesa pubblica in conto capitale ha effetti molto significativamente più espansivi al Sud. Per risorse date, una redistribuzione che avesse ottemperato alla “clausola del 34%” (introdotta in extremis a febbraio del 2017 e tuttora non operativa!) avrebbe risparmiato ai meridionali 300.000 disoccupati e limitato a 5 punti anziché ai dodici effettivi le perdite del PIL regionale; il tutto con effetto sostanzialmente neutrale al Centro Nord. E non per un miracolo bensì per il semplice fatto che il mercato del Sud si conferma di gran lunga il principale sbocco per le imprese del Nord. Dal che si ha la riprova che la miope estrazione-distrazione di risorse che in dieci anni ha ridotto al lumicino il ruolo degli investimenti pubblici al Sud anziché favorire, di fatto finisce per penalizzare anche le famose locomotive.
E ancora c’è chi chiama in causa la responsabilità di un’intera classe dirigente mentre si richiederebbe lo sforzo congiunto di forze locali e nazionali, cioè dell’intera società italiana. Le pare un rilievo pertinente?
Certo c’è un’enorme responsabilità, direi anzitutto di visione e di cultura che ha obnubilato per trent’anni la Classe dirigente. È opportuno sfogliare questa sorta di cipolla. Parlerei anzitutto di una arrogante - spesso ignorante Classe Dominate settentrionale (dai grandi “padroni” decadenti e decaduti in via di finanziarizzazione, alle miriadi di padroncini fino ai para-evasori efficienti delle partite IVA e, per chiudere, gli esegeti delle virtù dei territori). Dominante, rispetto a un ceto “dirigente” meridionale totalmente subordinato in perpetua autocritica compensata dall’ accesso privilegiato a quelle briciole di solidarietà che il sistema ha continuato a garantire in termini di risorse al Sud.
E in quest’ottica dobbiamo ora occuparci di una grave emergenza: i giovani continuano a lasciare il Sud in numero rilevante (molti sono laureati), quindi energie fresche e qualificate la cui assenza indebolisce sempre più questo territorio. È possibile e in che modo si può arrestare in concreto questa autentica emorragia che sta dissanguando regioni comunque provviste di notevoli potenzialità?
Il tema è noto ed ormai assurto alle cronache quotidiane. Nel Rapporto del 2011, definimmo il processo in atto come uno tsunami destinato a sconvolgere la piramide demografica meridionale, portando entro i prossimi trenta anni il Sud ad essere l’area più vecchia e più bisognosa di assistenza. Se consideriamo, già oggi, il tasso di dipendenza economica meridionale, tenendo conto del bassissimo tasso di occupati della popolazione attiva, la soglia del 100% è ampiamente superata. Cioè la popolazione in età da lavoro effettivamente in grado (perché occupata) di “sostenere” giovani di meno di 16 anni ed anziani di più di 65 anni è nettamente già inferiore a quella della popolazione da sostenere. Nei prossimi 20-30 anni tale rapporto di dipendenza economica salirà vertiginosamente ad oltre il 200%. Avremo quindi il paradosso di vedere il rarefarsi dei giovani come un freno transitorio che imporrà costi crescenti alla collettività e che meccanicamente, con il sempre minor ingresso di giovani porta alla scomparsa -io dico per eutanasia- della Questione Meridionale e -aggiungo- dell’Italia come Paese.
Tra i poco considerati effetti collaterali della quota molto consistente di questa migrazione selettiva (giovani ad alto potenziale) due sono quelli da considerare. Stante che se si emigra per studiare e/o per cercare un lavoro (spesso stages, occupazioni saltuarie o precarie) sempre le famiglie sostengono il giovane emigrato, invertendo così la consolidata tradizione che delle famose “rimesse” che l’emigrato inviava al paese di origine a sostegno della famiglia rimasta. C’è poi una chiara discriminazione che caratterizza l’emigrazione che lascia il Sud per formarsi e specializzarsi al Nord o in Europa. Infatti il vincolo di garantire risorse al giovane impedisce a molti di emigrare determinando una selezione per censo, basata sul “privilegio” di cui possono fruire solo le famiglie che hanno la possibilità... di impoverirsi.
E veniamo al progetto dell’autonomia differenziata richiesta da alcune Regioni del Nord: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Se si attuasse non si verificherebbe un’autentica frattura tra Nord e Sud con pesanti ricadute socio-economiche nel Mezzogiorno?
L’autonomia di cui parla il Lombardo veneto è una parola vuota di contenuti esplicitati, e ancor più di obiettivi esaurientemente dichiarati. L’autonomia da Costituzione (art.116 terzo comma) prevede un ben preciso percorso (articolo 119 che rinvia alla legge 42/2009) estremamente preciso per realizzare il quale non si è fatto praticamente nulla in questi dieci anni. Veneto e Lombardia e l’atteggiamento opportunistico e codista dell’Emilia Romagna, mirano semplicemente a “mettere il carro davanti ai buoi” per eludere regole e precetti costituzionalmente definiti con precisione (livelli essenziali di prestazioni dei servizi civili e sociali da erogare a costi standard a tutti i cittadini). Essendo estremamente chiaro perché (parlano i numeri) che in questi dieci anni pari diritti di cittadinanza non sono stati affatto garantiti al Sud, prima di poter finanche discutere di ulteriori funzioni delle Regioni e quindi di autonomia, è necessario fare il “tagliando” e predisporre almeno dei principi di perequazione che consentano -magari in cento anni- di colmare il gap notevole e crescente nella erogazione dei servizi che incidono sui diritti di cittadinanza.
Questa proposta sta suscitando una forte reazione nel meridione. Il Governatore della Puglia Emiliano parla di “disegno fraudolento” e l’economista Viesti (Università di Bari) la considera “una secessione mascherata”. Per il No molto netto sono anche i sindacati e la Svimez. Questo sarebbe sufficiente per farli retrocedere?
Dal Nord ovviamente vengono considerazioni opposte. Il Governatore della Lombardia Attilio Fontana pensa che l’autonomia: “è una riforma che vuole tutto il Paese”. (C’è da sottolineare che la Segretaria della Cisl Annamaria Furlan denuncia l’aumento del divario Nord-Sud e lo considera uno scenario molto preoccupante. “Serve una svolta su investimenti pubblici e privati”). E il Presidente del Consiglio Conte alla Fiera del Levante a Bari ha detto: “Il Sud non può essere staccato dal Nord o dal resto del Paese”.
In verità il Lombardo-Veneto ormai si accontenta di cristallizzare i privilegi acquisiti in termini di risorse. Il suo intento è di arrivare al modello delle piccole patrie magari tra di loro confederate, dove la parità dei diritti è riconosciuta di fatto ai soli cittadini di quella patria. È nei fatti un vero e proprio colpo di stato, travestito di virtuose intenzioni, un colpo di stato della classe Dominante di cui sopra che sancirebbe la nascita ufficiale di quella che abbiamo definito Provincia subordinata chiamata Mezzogiorno.
E infine, Presidente, se le si offrisse l’opportunità di un incontro con il Presidente del Consiglio Conte, uomo del Sud cosa gli direbbe?
Gli direi di riflettere sula crisi italiana prima di insistere sul Mezzogiorno. Che il Mezzogiorno è la principale risorsa disponibile per attivare un motore di sviluppo che possa dar sollievo e affiancare le ansimanti locomotive del Nord. Che il Mezzogiorno non è la periferia dell’Europa ma il centro del Mediterraneo, è la globalizzazione, è la logistica dei porti, l’energia pulita è tutto quello che serve a garantire la rendita posizionale euromediterranea che “spetta” all’ Italia perno dell’Unione nel Mediterraneo. Certo, dopo tanti anni di pigra ignavia, ci vuole più umiltà, meno provincialismo “confederato” e più senso della storia.
Gli direi infatti che è essenziale rifarsi alla Storia, che ci insegna a capire “quando le cose tornano”.
E gli ricorderei l’ appassionato richiamo di Fernand Braudel (30 marzo 1983 sul Corriere della Sera!!): “Valorizzare Napoli sarebbe una fortuna per l’Italia e per l’Europa, ma l’Italia ha paura...questa città decisamente troppo diversa: europea prima che italiana...Questo capitale oggi sottoutilizzato, sperperato fino ai limiti dell’ esaurimento, quale fortuna per tutti noi se, ora, domani, potesse essere mobilitato...Quale fortuna per l’Europa ma anche e soprattutto per l’Italia. Questa fortuna, Napoli merita più che mai che le sia data”.
Un progetto possibile, non un’utopia, non una illusoria presunzione.