In Italia, come in gran parte d’Europa, i supermercati buttano ogni giorno una quantità significativa di cibo perfettamente commestibile. Non si tratta di casi isolati o di errori di gestione: lo spreco è strutturale, trasversale alle grandi catene, e resiste nonostante le iniziative per ridurlo, come le donazioni a enti benefici o la vendita a prezzi scontati dei prodotti in scadenza. Il problema è ormai noto e documentato, ma continua a riproporsi con numeri impressionanti, in un sistema distributivo che si scontra quotidianamente con logiche di efficienza, standardizzazione e aspettative dei consumatori. Il cibo viene scartato non perché cattivo, ma perché “fuori standard”, imperfetto, vicino alla scadenza o semplicemente difficile da collocare sugli scaffali.
Supermercati e spreco alimentare: quando il cibo buono finisce nella spazzatura
La grande distribuzione è costruita su un principio di offerta costante, ricca e visivamente impeccabile. Questo comporta una gestione delle scorte che privilegia l’abbondanza e una rotazione veloce. In tale contesto, i prodotti che non rispettano certi criteri estetici o temporali finiscono per essere rimossi dagli scaffali con largo anticipo rispetto alla scadenza effettiva. La filiera logistica, anche se ottimizzata, non riesce sempre a smaltire in tempo utile le eccedenze attraverso canali alternativi. I tempi stretti, la burocrazia legata alle donazioni, la mancanza di infrastrutture per il recupero efficiente contribuiscono a rendere lo spreco la soluzione più semplice, benché la più costosa sotto il profilo etico ed ecologico.
Gli sforzi delle catene e i loro limiti
Tutte le principali insegne della GDO – dalla Coop a Esselunga, da Conad a Carrefour – hanno attivato negli ultimi anni programmi di contrasto allo spreco: raccolta per il Banco Alimentare, promozioni last-minute, collaborazioni con app come Too Good To Go. Ma gli ostacoli operativi restano numerosi. Spesso le donazioni richiedono tempo, personale e coordinamento logistico che non tutti i punti vendita riescono a garantire. Inoltre, alcuni alimenti, pur ancora buoni, non sono donabili per limiti normativi. Le app per la vendita dei “cestini anti-spreco” funzionano, ma coprono una porzione minima del venduto e si basano su modelli volontaristici che non possono sostituire una governance più strutturale del problema.
Le implicazioni economiche e ambientali
Ogni prodotto buttato rappresenta un costo per l’azienda, un mancato ricavo potenziale e una ferita per l’ambiente. Lo spreco alimentare è infatti uno dei principali fattori di emissione di CO₂ nel comparto agricolo e agroindustriale. La produzione di cibo comporta consumo di suolo, acqua, energia. Quando il prodotto viene scartato, tutti questi input vanno sprecati. Secondo la FAO, se lo spreco alimentare fosse un Paese, sarebbe il terzo emettitore di gas serra dopo Cina e Stati Uniti. Il tema è dunque centrale anche per gli obiettivi di sostenibilità delle imprese, che non possono più limitarsi a iniziative di comunicazione ma devono intervenire sulle logiche profonde di previsione, assortimento e approvvigionamento.
Il ruolo del consumatore nella filiera dello spreco
Parte del problema nasce anche dalle aspettative di chi acquista. I clienti cercano scaffali sempre pieni, frutta e verdura dall’aspetto perfetto, offerte last-minute e libertà di scelta fino a tarda sera. Questa pressione al rialzo sulla disponibilità genera surplus costanti, che solo in minima parte vengono riassorbiti. Cambiare la mentalità del consumatore diventa dunque una componente chiave della strategia anti-spreco. Iniziative come l’introduzione di “seconde scelte” ortofrutticole o sconti evidenziati sui prodotti prossimi alla scadenza stanno lentamente contribuendo a educare il pubblico. Ma la strada è lunga e richiede una riformulazione dell’intero patto tra distribuzione e consumo.
Una questione di sistema, non solo di buone pratiche
Il tema del cibo sprecato nei supermercati non può più essere relegato a una questione di etica aziendale o generosità filantropica. Serve un intervento di sistema, con politiche pubbliche che incentivino realmente il recupero, semplifichino le donazioni, favoriscano l’economia circolare e riconoscano fiscalmente il valore della riduzione degli scarti. L’obbligo di trasparenza sui dati di spreco, l’infrastrutturazione logistica per il recupero e la digitalizzazione della tracciabilità possono diventare leve strategiche per affrontare il problema in chiave economica e ambientale. In un Paese che spreca ancora circa 1,5 milioni di tonnellate di cibo all’anno nella distribuzione, ogni ritardo è un costo non solo per il sistema produttivo, ma per l’intera società.