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Come la società uccide le donne prima che lo facciano gli uomini

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Come la società uccide le donne prima che lo facciano gli uomini
Il femminicidio non è mai solo il colpo che arriva, il corpo che cade, il sangue che macchia il pavimento. È un processo lungo, che si sviluppa lentamente dentro la nostra società, in un tempo che ci sembra neutro e invece è profondamente marcato da ruoli, aspettative, gerarchie. La società comincia a uccidere le donne molto prima dell’uomo che materialmente preme il grilletto o stringe le mani intorno al collo. Comincia quando assegna alle bambine uno spazio più piccolo, meno rumoroso, meno autorevole. Quando le chiama “principesse” e non “ribelli”, quando le ammonisce se si sporcano, se si impongono, se contraddicono. E ai bambini insegna che devono vincere, resistere, possedere. È qui che il femminicidio prende forma: nell’idea che la donna non sia un soggetto pieno, ma una funzione, un ruolo, un prolungamento del desiderio altrui.

Come la società uccide le donne prima che lo facciano gli uomini

Ogni stereotipo di genere è un’istruzione implicita su come stare al mondo. È una regola che insegna ai maschi a non avere bisogno, a non cedere mai, a non esprimere fragilità; e alle femmine a modulare il proprio spazio, a chiedere scusa, a sentirsi in difetto se mettono prima se stesse. Questi modelli non sono opinioni o preferenze culturali: sono dispositivi pedagogici di lungo corso. Formano individui incapaci di riconoscere la parità, perché la parità non è mai stata mostrata loro. Se un ragazzo cresce credendo che l’amore significhi totalità, esclusività, fusione, sarà pronto a punire chi si sottrae. Se una ragazza cresce credendo che amare significhi donarsi, aspettare, perdonare, sarà pronta a giustificare l’inaccettabile. Gli stereotipi preparano il campo. E quando la violenza arriva, non sembra nemmeno così assurda.

I media e la retorica del mostro buono


La cronaca, quando interviene, non interrompe questo schema. Lo rinsalda. I giornali titolano: “Non accettava la separazione”, “Accecato dalla gelosia”, “Un uomo perbene ha perso la testa”. Nella grammatica della cronaca nera, la morte della donna è un effetto collaterale di un sentimento sbagliato. L’uomo è sempre “normale”, insospettabile, lavoratore, padre, marito. La violenza è un errore, una caduta, un evento improvviso. La donna, invece, è silenziosa. Sparisce dalle righe. Nessuno racconta cosa sognava, cosa temeva, se aveva chiesto aiuto. Il suo nome si consuma rapidamente. A rimanere, è il racconto di lui. Anche da morto, anche da carnefice, l’uomo resta il centro. La società preferisce compatirlo che condannarlo.

Scuola: il grande rimosso dell’educazione affettiva

E poi c’è la scuola. La scuola che forma il cittadino, ma troppo spesso ignora la persona. La scuola che trasmette nozioni ma si dimentica delle emozioni. In Italia non esiste un vero e strutturato programma di educazione all’affettività e al rispetto. Si accenna al bullismo, ogni tanto, si fanno incontri estemporanei, ma non c’è una pedagogia delle relazioni. E così i ragazzi e le ragazze continuano a costruirsi da soli, assorbendo modelli violenti da film, musica, social, pornografia. Nessuno spiega loro che il consenso è un processo, non un sì strappato. Nessuno insegna che l’amore non è possesso, che la gelosia non è un gesto romantico. Eppure è proprio da qui che si potrebbe cambiare il futuro.

Famiglie: amore e controllo nella stessa frase

In molte famiglie italiane, l’amore si intreccia ancora con il controllo. Si insegna la cura, ma spesso non il rispetto. Si protegge la figlia, ma la si limita. Si educa il figlio a farsi valere, ma non a chiedere scusa. Il patriarcato agisce anche dove non si nomina. È nei “copriti”, nei “non ti esporre”, nei “fatti rispettare”. I genitori trasmettono, spesso senza volerlo, l’idea che ci siano ruoli da rispettare, confini da non oltrepassare. E se una figlia si ribella, diventa un problema. Se un figlio domina, è solo un ragazzo deciso. È una pedagogia delle aspettative asimmetriche, che insegna alle donne a limitarsi e agli uomini a pretendere. Chi cresce dentro queste dinamiche, interiorizza una mappa del mondo in cui la donna è una concessione, non una persona.

Istituzioni assenti, interventi postumi

Quando la violenza esce dal privato e chiede aiuto, la risposta pubblica è spesso tardiva o inadeguata. Le donne denunciano, ma le denunce vengono archiviate. Chiedono protezione, ma i braccialetti elettronici non funzionano. Chiedono ascolto, ma ricevono istruzioni su come evitare il pericolo, non su come affrontarlo. I centri antiviolenza sono lasciati soli, sottofinanziati, a fronteggiare un’emergenza che dovrebbe essere priorità politica. E quando la donna viene uccisa, le istituzioni fanno dichiarazioni, invocano leggi più dure, dimenticando che la legge già c’era, ma non è stata applicata. Non manca la norma. Manca il riconoscimento. Manca la volontà di vedere il patriarcato come un problema sistemico, non come un fatto di cronaca.

L’abitudine al dolore femminile: quando la morte non fa più notizia

Il rischio più grande è l’assuefazione. La società si abitua. Scorrono le notizie, cambiano i volti, ma il meccanismo resta lo stesso. Le donne muoiono, ma sembrano nomi lontani. La narrazione si appiattisce, si fa rituale. Fiaccolate, appelli, panchine rosse. Ma poi tutto resta com’era. Perché cambiare davvero significherebbe mettere in discussione l’intera struttura culturale su cui abbiamo costruito le relazioni tra i generi. Significherebbe dire che l’uomo non ha diritto a nessuna donna. Che il rifiuto non è una provocazione. Che la fragilità maschile non può essere un’attenuante. Che la libertà femminile non è un pericolo.

Raccontare in modo nuovo: un atto politico e civile

Le parole non sono neutre. Sono azioni. E quando raccontano la morte di una donna, o la raccontano per ciò che è – l’esito estremo di un dominio patriarcale – o la rendono ancora più silenziosa. Chi scrive, chi parla, chi insegna ha la responsabilità di scegliere parole che non rinnovino la violenza. Serve una grammatica nuova, che non abbia paura di dire patriarcato, potere, ingiustizia. Che ridia voce a chi non l’ha avuta in vita. Che smetta di raccontare l’assassino come un padre affranto e la vittima come una nota a piè pagina. È da qui che può nascere una società diversa: da uno sguardo che non accetta più di vedere le donne morire senza reagire.
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