In Italia si lavora tanto, si produce poco e si guadagna meno. È la sintesi amara di un malessere che ha radici profonde e conseguenze ormai visibili: consumi stagnanti, giovani in fuga, natalità a picco e una società che assomiglia sempre più a una caldaia sotto pressione. Il tema salariale è diventato una ferita aperta. E il rischio non è solo economico: è sociale, culturale, politico.
Un salario che non si muove da trent’anni
Nel resto d’Europa i salari reali (cioè al netto dell’inflazione) sono saliti. In Italia no. Secondo l’OCSE, tra il 1990 e il 2020 i salari italiani sono diminuiti del 2,9%, contro il +33% della Germania, il +31% della Francia e il +6% della Spagna. Negli Stati Uniti, nello stesso periodo, sono cresciuti del 29,5%. Nessuno ha fatto peggio di noi.
E non è solo colpa dell’inflazione: il problema è strutturale.“In Italia la dinamica salariale è scollegata dalla produttività. Il lavoro non viene premiato. È un’anomalia che mina la coesione sociale”, ha detto giustamente l’economista ed ex presidente dell’Inps, Tito Boeri.
Cos’è la produttività e perché conta
La produttività del lavoro misura quanto valore si genera per ogni ora lavorata. Quando aumenta, il sistema economico diventa più efficiente. In un Paese sano, salari e produttività crescono insieme. In Italia, invece, quel legame si è spezzato.
Secondo Istat, tra il 1995 e il 2023 la produttività del lavoro è cresciuta dello 0,4% medio annuo. In Germania +1,3%, in Francia +1%, in Spagna +0,6%. Negli Usa oltre +1,5%. Nel 2023, complice un boom delle ore lavorate (+2,7%) e una crescita fiacca del valore aggiunto (+0,2%), la produttività italiana è addirittura scesa del 2,5%. Eppure, anche nei periodi di modesta crescita, i salari non si sono mossi. Perché?
Il cortocircuito italiano
Il vero paradosso italiano non è solo la bassa produttività, ma il fatto che quel poco che cresce non viene mai redistribuito ai lavoratori. I salari restano fermi perché la ricchezza prodotta non scende a valle: si blocca in alto, o si disperde in rendite e inefficienze. In altri Paesi, chi produce di più viene pagato di più. In Italia no. Qui il lavoro non è valorizzato nemmeno quando funziona.
Questo è il cortocircuito che ha paralizzato l’economia e intossicato il tessuto sociale. È come se il Paese si fosse rassegnato a una stagnazione strutturale.
Stipendi fermi, consumi bloccati
Se i salari non crescono, i consumi ristagnano. Secondo Eurostat, l’Italia è l’unico Paese dell’eurozona in cui, dal 2010 a oggi, la spesa reale delle famiglie è diminuita (-2,5%). Nel 2023, secondo Istat, i redditi reali delle famiglie sono calati dell’1,6%, per il secondo anno consecutivo.
E oltre 6 milioni di lavoratori vivono con contratti scaduti. E il lavoro non solo è poco retribuito, ma anche tassato troppo.
Giovani penalizzati, società a rischio
I più colpiti sono i giovani. Secondo Inapp, chi ha tra i 25 e i 34 anni guadagna oggi in media il 20% in meno rispetto a vent’anni fa. E chi può, se ne va: nel 2024 oltre 150.000 italiani under 40 hanno lasciato il Paese.
Il risultato? Rassegnazione. Ma anche rabbia silenziosa. “Se non si inverte la rotta, le disuguaglianze cresceranno. E con esse la tensione sociale”, ha avvertito la sociologa Chiara Saraceno. Un magma che può restare a lungo sotto traccia. Ma che, prima o poi, arriva in superficie. E può esplodere.
Uscire dalla trappola si può
Servono cinque mosse nette:
1. Rilanciare la contrattazione collettiva, sbloccando i rinnovi
legati alla produttività effettiva.
2. Introdurre finalmente un salario minimo legale, come chiede l’UE.
3. Premiare chi innova, forma e assume stabilmente, non chi
precarizza.
4. Investire nei settori ad alta produttività, come la tecnologia.
5. Tagliare il cuneo fiscale per chi guadagna poco, non per chi già incassa molto.