Editoriale/ Referendum, Italia in fuga dalle urne: il flop è politico
- di: Giuseppe Castellini, Direttore Editoriale di Italia Informa

Affluenza poco sopra il 30%, una débâcle per Landini e il centrosinistra. La società è depressa, non in rivolta. E chi la guida non la conosce più.
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Il referendum ha perso, ma prima ancora ha perso chi l’ha promosso
Non è una novità, ma il dato dell’8 e 9 giugno 2025 fotografa un crollo di fiducia che si fa voragine: poco più del 30% degli aventi diritto è andato a votare. Numeri da deserto democratico. Non basta dire che “la gente non capisce” o che “c’è disinformazione”. Il punto è che certi strumenti, semplicemente, non funzionano più per affrontare le questioni complesse. E soprattutto, a mancare è una lettura credibile della società italiana.
I referendum che hanno fatto la storia – sul divorzio, sull’aborto, sull’acqua pubblica – mettevano in campo quesiti chiari, comprensibili, binari. Sì o no. Tutto il resto – giustizia, lavoro, autonomie – è finito nel dimenticatoio, travolto da astensionismo di massa. Perché il popolo italiano, che piaccia o no, quando il quesito si fa tecnico si tira indietro. E lo fa da decenni.
L’illusione di una mobilitazione popolare
Chi ha immaginato che il referendum 2025 potesse essere un’occasione per “svegliare il Paese”, evidentemente non conosce il Paese. O meglio: conosce un’Italia che non esiste. Secondo le stime elaborate a partire dai risultati delle politiche 2018 – quando l’affluenza era ancora al 72,94% – l’area di centrosinistra partiva da un potenziale teorico del 27,7% sugli aventi diritto. Una base fragile, che forse poteva contare anche su un’appendice di voti calcolata sull’area centrista di Calenda e Renzi (5,7%). Sommando tutto: 33,4%. Ecco, nemmeno quel margine minimo è stato raggiunto.
Perché? Perché la mobilitazione non arriva a comando. Non basta alzare la voce. E soprattutto, non basta una sigla – per quanto storica – per rianimare la partecipazione.
Un sindacato diviso e un paracadute mai aperto
A rendere il tutto ancora più disastroso è stato l’isolamento del promotore principale, la Cgil, che ha lanciato la sfida senza nemmeno avere dalla sua parte l’intero fronte sindacale. La Cisl, con lucidità, si è tenuta fuori, ritenendo giustamente che il referendum non fosse lo strumento idoneo per affrontare temi intricati come la precarietà, i contratti, le politiche del lavoro. È stato come buttarsi senza paracadute. Un errore strategico e culturale. Se neppure il sindacato confederale è unito, come si può pretendere che lo siano i cittadini?
Landini e l’errore di lettura: la rivolta che non c’è
Maurizio Landini ci ha creduto. Ha parlato esplicitamente di un “clima da rivolta sociale” che avrebbe dovuto esplodere in una presa di coscienza collettiva. Ma è proprio qui l’errore più grave. Perché la società italiana non è in rivolta: è depressa. E lo ha capito, tra gli altri, il Censis, che nel suo ultimo Rapporto annuale ha tratteggiato un’Italia “che non sogna più”, che si trascina tra frustrazione e paura, tra risentimento e rinuncia. Altro che rivoluzione.
La rabbia non è organizzata, è diffusa. La precarietà c’è, eccome. I salari stagnano. Il lavoro è povero, la crescita è ferma. Ma l’energia per una riscossa collettiva semplicemente non c’è. Gli italiani reagiscono come sanno fare: col fatalismo, con l’arte dell’arrangiarsi, con la ritirata nel privato. Non sono pronti a impugnare le forche, ma a cercare un secondo lavoro sì. A votare no, a meno che non ci sia qualcosa di davvero urgente in gioco. E il referendum, questo referendum, non lo era.
Il leader sindacale senza popolo
Landini ha sbagliato bersaglio. E ha confermato di essere il leader di un’idea di sinistra che ha smarrito il contatto con la realtà. Lontano anni luce dai grandi sindacalisti della Cgil del passato – Lama, Trentin, Cofferati, Epifani – che il Paese lo studiavano, lo frequentavano, lo comprendevano. Oggi la leadership sindacale appare fragile, ideologica, sbilanciata su una narrazione del conflitto che non trova riscontro nei comportamenti concreti della popolazione.
Perché per promuovere un referendum non basta la denuncia. Serve un’analisi solida, un radicamento sociale vero, una grammatica condivisa con chi si vuole coinvolgere. E serve anche – dettaglio non irrilevante – una strategia. Questa volta non c’è stata né l’una né l’altra.
L’opposizione che parte dall’immaginario, e non dalla realtà
Il vero problema non è il referendum, ma l’assenza di un’alternativa politica credibile. La sinistra continua a inseguire fantasmi di ribellione, mentre la realtà implode silenziosa. Non servono tamburi di guerra, ma cura, intelligenza, tempo. Serve un’opposizione che parta da ciò che c’è: un’Italia che si spegne lentamente, che ha paura, che si sente sola. Un’Italia che non chiede miracoli ma risposte pratiche, graduali, concrete.
Chi oggi invoca il cambiamento con i proclami non fa altro che allontanarlo. Perché in politica, come nella vita, la distanza tra l’illusione e la frustrazione è minima. E quando si chiede a un Paese esausto di marciare, senza mostrargli dove andare, il rischio è solo uno: che si sieda. E non si alzi più.