L’avvocata Pompilia Rossi analizza le nuove dinamiche di coppia, la fragilità delle donne nei procedimenti di separazione e il nodo della violenza domestica.
Nell’intervista si parla dell’Italia che cambia, la parità tra uomini e donne resta un obiettivo ancora lontano. L’evoluzione delle relazioni di coppia e il peso persistente dei vecchi ruoli sociali. Al centro del suo ragionamento, le difficoltà delle donne economicamente fragili, la gestione dei figli dopo la separazione e le nuove forme di violenza digitale. Rossi sottolinea come le recenti riforme abbiano reso più rapide le procedure, ma non abbiano cancellato le disuguaglianze. Le norme, pur necessarie, non bastano se non si accompagna la giustizia a una rivoluzione culturale che parta dalle scuole, dal linguaggio e dalla formazione degli operatori.
Pompilia Rossi: "La giustizia non basta, serve una rivoluzione culturale"
Nei rapporti di coppia prevalgono ancora i vecchi schemi o ha notato un reale cambiamento nelle dinamiche e nei ruoli tra partner?
Ritengo che oggi stiamo assistendo ad una fase di transizione: alcune dinamiche tradizionali restano ancora presenti, ma stanno lasciando spazio a modelli più flessibili e condivisi. I dati offerti dall’ISTAT mostrano come una parte della popolazione continui a ritenere che sia compito dell’uomo provvedere al reddito familiare, mentre la gestione del ménage familiare debba essere demandata alle donne; tali stereotipi si manifestano maggiormente nelle generazioni più anziane ed in alcune aree territoriali. Al contempo, tuttavia, è innegabile che le dinamiche all’interno delle coppie siano in continua evoluzione, soprattutto dove entrambi i partner svolgono attività lavorativa all’esterno di casa e sono dunque costretti a ridistribuire compiti e responsabilità anche genitoriali. È chiaro che il percorso non è uniforme: accanto a coppie che sperimentano modelli paritari, altre restano legate a ruoli tradizionali per motivazioni di tipo culturale o economico. Tutto, purtroppo, è aggravato dalla inesistenza di mezzi di supporto che costringono spesso solo la donna alla rinuncia di una propria affermazione professionale per poter seguire famiglia, figli e spesso genitori anziani.
Nei procedimenti di separazione la percezione comune è che i tempi si siano accorciati rispetto al passato. Cosa è cambiato nella pratica e quali sono le conseguenze per le persone coinvolte?
La percezione che i tempi della separazione si siano accorciati non è priva di fondamento, poiché alcune riforme hanno inciso in maniera evidente. A titolo di esempio, la legge n. 55 del 2015 sul cosiddetto “divorzio breve” ha ridotto a sei mesi il termine per promuovere la procedura di divorzio dopo una separazione consensuale ed a un anno nei casi giudiziali, mentre in precedenza si dovevano attendere tre anni. A ciò si aggiunga la possibilità sia per la separazione che per il divorzio di ricorrere alla negoziazione assistita (L. 162/2014) che consente di addivenire ad un accordo tra i coniugi con l’assistenza degli avvocati, mediante trattative più o meno complesse, senza recarsi in Tribunale ed accelerando in tal modo le tempistiche. Con la riforma Cartabia, inoltre, è stato introdotto il rito unico che uniforma tutti i giudizi ed ha introdotto anche la possibilità di trattare insieme separazione e divorzio, riducendo notevolmente le tempistiche per definire entrambi i giudizi. Tutto ciò produce effetti concreti: quando vi è accordo, la procedura può concludersi in tempi rapidi, riducendo costi e stress emotivo delle parti, ma è fondamentale che la rapidità non ponga a rischio la tutela di chi ha più bisogno di protezione, quindi soggetti deboli quali minori e donne prive di reddito. Permangono però criticità, soprattutto nei casi conflittuali, con figli minori o patrimoni complessi, dove i procedimenti si protraggono ancora a lungo, anche in conseguenza di eccessivi carichi di contenziosi in alcuni Tribunali.
Donne economicamente svantaggiate e minori sono spesso definiti “soggetti deboli” nei percorsi di separazione: oggi quali strumenti concreti hanno a disposizione per vedere tutelati i propri diritti?
La tutela dei soggetti più fragili rappresenta un nodo cruciale nei procedimenti di separazione. Per le donne economicamente svantaggiate, l’ordinamento prevede l’istituto dell’assegno di mantenimento, destinato al coniuge che non dispone di redditi sufficienti, con l’obiettivo di garantire la continuità del tenore di vita avuto in costanza di matrimonio o, almeno, un livello dignitoso di sostentamento. Nel caso di figli minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti, il Giudice determinerà un assegno a carico del genitore non convivente considerate le esigenze dei figli, il tempo di permanenza con ciascun genitore e la capacità economica di entrambi. Un ruolo importante è svolto anche dagli operatori dei servizi sociali, che monitorano le condizioni di vita dei minori, e dall’istituto della mediazione familiare, che in alcuni casi può favorire una gestione meno conflittuale dei rapporti, soprattutto nell’interesse dei figli. Tali strumenti rappresentano presidi concreti che consentono ai soggetti più deboli di vedere tutelati i propri diritti in momenti di particolare vulnerabilità e sono oggi in posizione centrale nell’attuale normativa che regola il processo di famiglia.
Sempre più spesso un figlio rifiuta di frequentare uno dei due genitori dopo la separazione. Si tratta di un fenomeno delicato e doloroso: come lo affronta la giustizia e quali soluzioni prevede l’ordinamento?
Il rifiuto da parte di un figlio di frequentare uno dei genitori dopo la separazione è un fenomeno molto delicato, che coinvolge aspetti soprattutto psicologici e relazionali. Sebbene l’art. 337-ter del codice civile sancisca il diritto del minore a mantenere rapporti equilibrati e continuativi con entrambi i genitori, quando si manifesta un rifiuto persistente da parte del minore, il Giudice tende innanzitutto a rintracciarne le cause, anche mediante l’espletamento di consulenze tecniche d’ufficio, svolte da psicologi e psichiatri, al fine di distinguere i casi in cui il rifiuto nasca da conflitti di lealtà, problematiche personali del minore o opere di manipolazione di uno dei genitori. Ciò avviene con l’ascolto del minore ed il Giudice, all’esito di tale ascolto, assume le decisioni che ritiene più opportune. È un fenomeno complesso che va affrontato con equilibrio e rispetto delle problematiche che il minore esterna.
La violenza domestica entra purtroppo di frequente nei procedimenti di separazione e nella regolamentazione della genitorialità. Come viene gestita e quali sono le tutele effettive previste per le vittime?
La violenza domestica è una grave violazione dei diritti umani e trova specifica tutela nell’ordinamento italiano. La Legge n. 69 del 2019, conosciuta come “Codice Rosso”, ha introdotto misure urgenti per contrastare la violenza di genere, prevedendo l’obbligo per le forze dell’ordine di intervenire tempestivamente e per il Pubblico Ministero di procedere d’ufficio con celerità in caso di notizia di reato. Inoltre, la legge ha previsto l’inasprimento delle pene per reati come maltrattamenti, atti persecutori e violenza sessuale, anche in ambito civile, il giudice può adottare misure protettive a favore della vittima, con l’adozione di provvedimenti urgenti in tutela del soggetto maltrattato e dei minori. È altresì previsto il patrocinio a spese dello Stato per le vittime che non dispongono di redditi sufficienti. La normativa può definirsi “completa” ma il problema rimane perché il fenomeno è trasversale, di origine culturale e bisogna operare non solo sulle sanzioni ma in prevenzione con progetti adeguati e strutturati.
Si parla spesso di “vittimizzazione secondaria”: può spiegare in termini chiari di cosa si tratta e perché rappresenta un rischio reale per chi subisce violenza o discriminazione?
La “vittimizzazione secondaria” si riferisce al processo attraverso il quale una persona che ha subito una violenza endofamiliare subisce ulteriori danni a causa del trattamento ricevuto da parte delle istituzioni e dei professionisti che intervengono: questo fenomeno può manifestarsi attraverso la colpevolizzazione della vittima, la minimizzazione dell’accaduto, la mancanza di ascolto o il trattamento inadeguato da parte degli operatori. La vittimizzazione secondaria è particolarmente dannosa perché compromette ulteriormente il benessere psicologico della vittima, ostacolare il suo percorso di recupero e può disincentivare la denuncia di futuri abusi. Purtroppo, spesso il fenomeno si concretizza in una valutazione negativa della genitorialità di una donna che cerca di tutelare i figli da un comportamento violento del loro padre: orbene, spesso tale finalità di tutela viene inteso come ostacolo all’esercizio della genitorialità del maltrattante. Situazione, quindi, abnorme.
I reati contro le donne commessi attraverso la rete - dallo stalking online al revenge porn - stanno crescendo. Quanto la tecnologia ha aggravato le forme di violenza e quali strumenti legali esistono per contrastarla?
La tecnologia ha ampliato in modo significativo le forme di violenza contro le donne, perché ha reso le vittime raggiungibili in ogni momento e ha dato ai persecutori strumenti di controllo e di esposizione pubblica senza precedenti. Lo stalking online e il cosiddetto revenge porn ne sono esempi evidenti: il primo trasforma la rete in uno spazio di continua pressione psicologica, il secondo infligge una violenza che si moltiplica a causa della rapida e incontrollabile diffusione delle immagini.
L’ordinamento ha reagito introducendo nuove norme: l’art. 612-bis c.p. sugli atti persecutori si applica anche alle condotte digitali, mentre l’art. 612-ter punisce la diffusione non consensuale di immagini intime, con pene fino a sei anni. La legge 69/2019, nota come Codice Rosso, ha rafforzato tali tutele e accelerato le procedure.
Resta però il fatto che il solo aspetto sanzionatorio non è sufficiente: è fondamentale anche attuare forme di prevenzione ed educazione digitale, affinché le donne possano riconoscere e denunciare tempestivamente tali reati, senza che ci sia “vergogna” a farlo o timore delle conseguenze.
In questo scenario si inserisce anche l’uso del braccialetto elettronico quale misura di tutela avanzata, previsto per monitorare il rispetto dei divieti di avvicinamento e delle misure cautelari. Tuttavia, per la mia esperienza vi è criticità nella applicazione concreta di tale misura: i dispositivi disponibili non sempre sono sufficienti a coprire tutte le richieste, i tempi di attivazione possono risultare lenti e, in alcuni casi, la protezione non è percepita come immediata e costante dalle vittime. È dunque uno strumento che può funzionare davvero solo se correlato ad un coordinamento più rapido ed incisivo tra Autorità Giudiziaria e Forze dell’Ordine, affinché la finalità di protezione diventi una garanzia effettiva e non solo teorica.
Guardando al quadro complessivo, quali sono, secondo lei, i punti su cui il sistema deve ancora cambiare per garantire giustizia e protezione reale a chi è più esposto?
Malgrado i progressi compiuti, persistono ancora criticità nel sistema giuridico italiano riguardo alla protezione delle persone vulnerabili. È necessario un maggiore coordinamento tra le diverse istituzioni coinvolte, come Tribunali, Forze dell’Ordine e Servizi Sociali, per garantire una risposta tempestiva ed efficace alle situazioni di rischio. Inoltre, è fondamentale investire nella formazione degli operatori del diritto e delle forze dell’ordine per sensibilizzarli sulle specifiche esigenze delle vittime di violenza e discriminazione poiché oggi vi è una “cultura” della violenza interna come conoscenza del fenomeno e dei suoi possibili rimedi. Infine, è essenziale promuovere una cultura del rispetto e della parità di genere, attraverso l’educazione e la sensibilizzazione sin dai primi anni di vita e di scuola, per prevenire la violenza e la discriminazione alla radice.