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Trump insulta le giornaliste e la Casa Bianca rilancia l’attacco

- di: Jole Rosati
 
Trump insulta le giornaliste e la Casa Bianca rilancia l’attacco
Trump insulta le giornaliste e la Casa Bianca rilancia l’attacco
Dagli insulti sessisti sull’Air Force One alla licenza minacciata ad Abc: lo scontro con la stampa femminile racconta la fragilità della democrazia Usa nell’era del secondo mandato Trump.

Due episodi in pochi giorni, due giornaliste prese di mira in pubblico, una Casa Bianca che non solo non si dissocia ma alza il tiro contro le testate coinvolte. È così che la guerra di Donald Trump contro i media ha compiuto un ulteriore salto di qualità: dagli attacchi rituali alle “fake news” a una strategia che punta apertamente a delegittimare, intimidire e colpire chi fa domande scomode, con un bersaglio privilegiato sulle croniste.

Nelle ultime ore, la Casa Bianca ha difeso senza esitazioni il presidente dopo che Trump ha insultato in modo sessista una reporter a bordo dell’Air Force One e ha aggredito verbalmente, dall’Ufficio Ovale, la corrispondente politica di una grande emittente nazionale. Contemporaneamente, lo staff del presidente ha descritto una delle principali reti televisive americane come una sorta di “macchina di propaganda”, ribadendo l’idea che chiunque critichi la Casa Bianca starebbe agendo per conto dell’opposizione.

Insulti in quota: il “quiet, piggy” sull’Air Force One

Il primo episodio è avvenuto il 14 novembre 2025, durante una conversazione con i giornalisti sull’Air Force One. Quando la reporter di Bloomberg Catherine Lucey ha insistito con una domanda sui file legati al caso Epstein e sui riferimenti al presidente nei documenti, Trump l’ha zittita con un’espressione che ha fatto il giro del mondo: “Quiet, piggy”, qualcosa come “zitta, porcellina”.

La scena, all’inizio, è passata quasi sotto traccia. Ma nel momento in cui il video ha iniziato a circolare sui social e sui network internazionali, la reazione è esplosa: editoriali indignati, commenti di colleghe e colleghi, prese di posizione delle associazioni di giornalisti che hanno definito l’uscita del presidente un attacco esplicito e di genere, non solo alla singola cronista ma all’idea stessa di stampa indipendente.

Bloomberg ha difeso pubblicamente Lucey, rivendicando il ruolo del giornalismo nell’incalzare il potere, anche quando si tratta di temi politicamente esplosivi come la gestione del caso Epstein. In parallelo, opinionisti e commentatori hanno sottolineato come il linguaggio del presidente ricalchi un copione consolidato: ridurre le donne che lo criticano a caricature, etichettarle con soprannomi umilianti, spostare il discorso dalla sostanza delle domande all’attacco personale.

Nell’Oval Office con il principe saudita: il bersaglio è Mary Bruce

Pochi giorni dopo, la tensione è salita ancora di più, questa volta davanti alle telecamere di tutto il mondo. Il 18 novembre 2025, nell’Ufficio Ovale, Donald Trump ha accolto il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, ancora al centro delle polemiche internazionali per il ruolo attribuitogli dai servizi Usa nell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, avvenuto nel consolato saudita a Istanbul nel 2018.

In quel contesto, Mary Bruce, capo corrispondente dalla Casa Bianca per un grande network televisivo, ha fatto ciò che qualsiasi cronista politico dovrebbe fare. Ha chiesto al presidente perché stesse riportando al centro della scena diplomatica un leader accusato di aver avallato l’assassinio di un giornalista e ha domandato al principe saudita perché gli americani dovrebbero fidarsi di lui. Poi ha spostato il focus sul nodo più scivoloso per Trump: i legami d’affari della sua famiglia in Medio Oriente e la resistenza a rendere completamente pubblici i dossier sull’affaire Epstein.   

La risposta del presidente è stata un attacco personale, lungo e rabbioso. Trump si è rivolto a Bruce dicendole, in sostanza: “Non è la domanda che mi dà fastidio, è il tuo atteggiamento”, accusandola di essere una “terribile persona e una pessima giornalista” e arrivando a evocare la possibilità che la rete per cui lavora perda la licenza di trasmissione.

Non pago, il presidente ha liquidato le conclusioni dell’intelligence americana sul caso Khashoggi, sostenendo che «molte persone non amavano» il giornalista e che il principe saudita non avrebbe saputo nulla di quanto accaduto, una posizione in netto contrasto con quanto ricostruito dagli apparati di sicurezza statunitensi.   

La Casa Bianca raddoppia: Abc come “propaganda democratica”

Se qualcuno si aspettava una nota di chiarimento o almeno un tentativo di smussare i toni, è rimasto deluso. Nelle ore successive, la Casa Bianca ha scelto la linea della controffensiva. In un briefing particolarmente aggressivo, lo staff del presidente ha definito l’emittente per cui lavora Bruce una sorta di “macchina di propaganda del Partito democratico mascherata da rete televisiva”, accusandola di orchestrare campagne ostili contro Trump e di usare i propri giornalisti come strumenti politici.

A proposito dell’episodio sull’Air Force One con Catherine Lucey, un alto funzionario ha liquidato le critiche con una formula che riassume bene la filosofia trumpiana nei confronti dei media: “Se sei pronto a sferrare un colpo, devi essere pronto anche a incassarlo”. In altre parole: se fai domande dure al potere, devi mettere in conto di essere insultato, ridicolizzato, minacciato. Una visione che rovescia completamente l’idea di controllo democratico del potere attraverso la stampa.

Non è un caso che le associazioni per la libertà di stampa, negli Stati Uniti e all’estero, abbiano reagito con durezza. Diverse organizzazioni hanno ricordato che la minaccia, anche solo evocata, di togliere la licenza a una rete televisiva per le domande poste dai propri cronisti è incompatibile con la tradizione del Primo emendamento e rischia di produrre un effetto gelido in redazioni che già lavorano sotto crescente pressione politica.

Nuove regole, nuove pressioni: il clima ostile alla stampa

Gli insulti alle giornaliste arrivano in un contesto che non è affatto neutro. Nel settembre 2025, il Pentagono ha introdotto nuove regole che chiedono ai reporter di non utilizzare materiale “non autorizzato” anche quando le informazioni non sono classificate: un tentativo di limitare la capacità dei media di lavorare con documenti e fonti riservate, contestato pubblicamente da gran parte delle principali testate Usa.

Poche settimane dopo, lo stesso network finito ora nel mirino del presidente ha sospeso, sotto la pressione della Casa Bianca e di settori conservatori, uno dei principali talk show della tarda serata, in seguito a una monologo critico verso Trump. La decisione ha scatenato boicottaggi, proteste di sindacati e commentatori, che hanno denunciato un clima di intimidazione politica nei confronti di chi osa prendere in giro il presidente in prima serata.

Sullo sfondo, c’è una lunga storia di conflitto strutturale tra Trump e i media, fatta di etichette come “nemici del popolo”, di divieti di accesso a determinate testate, di conferenze stampa trasformate in spettacoli di umiliazione pubblica. Le croniste – dalle anchor televisive alle corrispondenti dalla Casa Bianca – sono spesso state il bersaglio privilegiato di commenti sul fisico, allusioni sessiste, diminutivi sprezzanti.

Il fattore di genere: perché a pagare sono le giornaliste

Non è un dettaglio che entrambe le protagoniste di questi ultimi episodi siano donne. Da Catherine Lucey a Mary Bruce, passando per altre colleghe che in passato sono diventate destinatarie di soprannomi e insulti, la linea è sempre la stessa: delegittimare le domande trasformandole in un fatto personale, insinuare che la giornalista sia “isterica”, “negativa”, “pilotata”.   

Nei commenti raccolti da diversi media statunitensi in questi giorni, molte giornaliste spiegano come gli insulti pubblici del presidente non restino confinati dentro la bolla della Casa Bianca: alimentano un’ondata di odio online, minacce, messaggi sessisti che arrivano nel giro di pochi minuti sui loro profili social e nelle caselle di posta delle redazioni. Il messaggio implicito, per chi guarda, è semplice: fare domande al presidente – soprattutto se sei donna – può trasformarti nel prossimo bersaglio nazionale.

Non stupisce, quindi, che i comitati di redazione e le associazioni di categoria non si limitino più a denunciare genericamente gli attacchi ai media, ma parlino apertamente di violenza verbale di genere, di un uso del linguaggio presidenziale che sdogana e legittima stereotipi che molte aziende e istituzioni stanno cercando di superare da anni.

La nuova America trumpiana e il messaggio al mondo

La sequenza di queste giornate dice molto non solo sul rapporto tra Trump e la stampa, ma sul volto della nuova America sotto il suo secondo mandato. Mentre la Casa Bianca coccola un leader accusato di aver fatto assassinare un giornalista, ne attacca duramente un’altra che osa ricordarlo nell’Ufficio Ovale. E mentre promette “ordine” e “sicurezza”, sembra voler imporre un modello di informazione addomesticata, dove le emittenti che fanno domande scomode vengono tacciate di essere strumenti di propaganda dell’opposizione.

Il problema non è solo interno. Ogni volta che il presidente degli Stati Uniti aggredisce una giornalista, invia un segnale anche a tutti quei governi che, nel mondo, cercano pretesti per imbavagliare la stampa: se lo fa Washington, perché non dovremmo farlo noi? Quando poi a essere nel salotto della Casa Bianca è proprio il principe saudita legato al caso Khashoggi, l’immagine che arriva all’estero è quella di un’America sempre più disinvolta nel sacrificare la libertà di stampa sull’altare dei rapporti d’affari e della geopolitica.

In questo quadro, le parole rivolte a Mary Bruce e Catherine Lucey non sono una gaffe di giornata, ma l’ennesimo tassello di una strategia coerente: minare la credibilità dei media indipendenti, dividere l’opinione pubblica tra “patrioti” e “traditori”, ridurre la cronaca politica a un ring permanente in cui il presidente può insultare, mentre chi fa domande deve solo incassare. È esattamente il contrario di ciò che richiede una democrazia matura. Ed è il motivo per cui, stavolta, le reazioni dentro e fuori gli Stati Uniti sono molto più allarmate del solito.

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