Il traguardo della parità occupazionale tra uomini e donne in Italia appare ancora lontano e si configura come una corsa contro il tempo. Secondo i dati più recenti, occorreranno quasi 29 anni per raggiungere una reale equità lavorativa, un lasso di tempo che appare inaccettabile per un Paese che ambisce a rimanere competitivo sullo scenario internazionale. Alla fine del 2023, gli uomini occupati erano circa 13,6 milioni con un tasso di attività del 70,7%, mentre le donne si fermavano a 10,07 milioni, raggiungendo solo il 53% del tasso di attività. Nonostante negli ultimi dieci anni l’occupazione femminile abbia segnato un incremento del +9,7%, superiore a quello maschile (+8,8%), il progresso è ancora troppo lento e disomogeneo.
Parità di genere in Italia: 29 anni per colmare il divario occupazionale
Questo quadro emerge dal Rapporto sullo stato dei diritti elaborato dalla onlus A Buon Diritto, presentato alla Camera con il sostegno della Chiesa Valdese e il contributo di rappresentanti di Sinistra Italiana, +Europa e Partito Democratico. Il documento denuncia un’Italia che arranca non solo nella parità di genere, ma anche su altri fronti sociali ed economici, delineando un sistema in cui le fragilità si intrecciano con le ineguaglianze.
Un altro dato allarmante riguarda il divario generazionale, un fenomeno che si somma a quello di genere. Tra i 29 e i 34 anni si contano 4,2 milioni di occupati, con un incremento del +4% negli ultimi dieci anni, ma la crescita si concentra soprattutto nella fascia d’età over 34, che supera i 18,8 milioni di lavoratori (+8,9%). La forza lavoro italiana si fa dunque sempre più anziana, riflettendo un andamento demografico in declino che pesa sulla sostenibilità economica e previdenziale del Paese.
A complicare ulteriormente il quadro, il rapporto mette in evidenza anche le difficoltà legate all’inclusione dei lavoratori stranieri. Nonostante un aumento di 40.000 unità negli ultimi cinque anni, le condizioni lavorative e i diritti di questa fascia della popolazione restano critici, alimentando tensioni sociali e un senso di marginalizzazione.
Non mancano poi segnali preoccupanti sul fronte della giustizia e dell’istruzione. La popolazione carceraria è in crescita, nonostante un calo del 5,5% nei reati rispetto al 2022. Questa contraddizione è legata a un inasprimento legislativo che, secondo i critici, privilegia la punizione rispetto alla prevenzione, alimentando un sistema che fatica a favorire il reinserimento sociale. Sul versante scolastico, il rapporto denuncia una sempre più stretta collaborazione tra istituzioni educative e industria bellica. Protocolli d’intesa coinvolgono gli studenti, fin dalla scuola primaria, in attività legate ai corpi militari, come Open Day e percorsi di alternanza scuola-lavoro in aziende dell’industria bellica. Secondo alcune voci critiche, questa “militarizzazione dell’educazione” riflette una spinta bellicista preoccupante e dissonante con i valori di pace e inclusione.
Nel complesso, l’immagine restituita dal rapporto è quella di un Paese che fatica a garantire pari opportunità e inclusione. La lentezza nei progressi, la mancata valorizzazione delle nuove generazioni e la perpetuazione di logiche punitive sono segnali di una stagnazione profonda. Recuperare terreno è un imperativo non solo etico, ma anche economico e sociale. Eppure, senza un cambio di rotta deciso e coraggioso, il rischio è quello di un’Italia sempre più divisa, tra chi può accedere alle opportunità e chi rimane ai margini di un sistema incapace di evolversi.