Perché i Papi cambiano nome e cosa raccontano le fumate del conclave
- di: Cristina Volpe Rinonapoli

Alle 18:08 di ieri, 8 maggio, il cielo sopra Roma si è colorato di bianco. Dal comignolo della Cappella Sistina è uscito il fumo atteso da tutto il mondo: il nuovo Papa è stato eletto. Il cardinale statunitense Robert Francis Prevost ha accettato l’incarico e, come vuole la tradizione, ha assunto un nome nuovo. Si chiamerà Leone XIV. Una scelta che racconta molto più di quanto sembri. Perché un Papa cambia nome? E come funziona davvero quel sistema di fumate che trasforma in pochi secondi la clausura del conclave in un evento globale?
Perché i Papi cambiano nome e cosa raccontano le fumate del conclave
La tradizione di cambiare nome al momento dell’elezione non è nata con la Chiesa primitiva. Il primo a farlo fu Papa Giovanni II, nel 533: si chiamava Mercurio, e ritenne poco opportuno che il successore di Pietro portasse il nome di una divinità pagana. Da allora, quel gesto è diventato una consuetudine consolidata. Un atto simbolico che indica un passaggio: da cardinale a guida spirituale della Chiesa universale. Il nuovo nome segnala il profilo del pontificato, la linea a cui ispirarsi, il tono da dare al proprio ministero. Alcuni Papi scelgono nomi già noti per evocare continuità (Giovanni, Benedetto, Gregorio), altri ne introducono di nuovi per marcare una discontinuità (come fece Francesco nel 2013).
Leone XIV: un nome forte, dottrinale, sociale
Robert Francis Prevost ha scelto Leone, un nome già usato da tredici suoi predecessori. Leone I, detto Magno, è il Papa che fermò Attila alle porte di Roma nel V secolo e gettò le basi del primato pontificio. Leone XIII fu il pontefice della Rerum Novarum, la prima grande enciclica sulla questione sociale e sul lavoro. Con questo nome, il nuovo Papa americano ha voluto segnalare radici profonde, fermezza teologica, ma anche attenzione al mondo moderno e ai suoi conflitti. Nessun Papa lo aveva scelto dal 1903. Ora, il nome torna con forza.
Le fumate: un linguaggio che viene da lontano
Prima che il nuovo nome venga annunciato, c’è un altro segnale che cattura l’attenzione del mondo: il fumo. Durante ogni scrutinio del conclave, i cardinali bruciano le schede elettorali in una stufa all’interno della Cappella Sistina. Ma non è solo la carta a bruciare. Nel corso dei secoli, la Chiesa ha messo a punto un sistema per distinguere l’esito del voto.
Nei secoli passati, il colore del fumo era affidato a tecniche rudimentali: la fumata nera indicava che l’elezione non era avvenuta, mentre la fumata bianca segnalava il contrario. Fino al XIX secolo, non esisteva un sistema standardizzato: si bruciavano le schede, a volte con paglia umida per ottenere fumo più chiaro. Fu solo nel 1878, con l’elezione di Leone XIII, che si iniziò a utilizzare deliberatamente paglia bagnata per generare la fumata bianca. Nel 1914 si rese ufficiale la distinzione chimica tra le due.
Come si producono le fumate oggi
Oggi il sistema è molto più preciso. Il fumo nero viene generato da una miscela di perclorato di potassio, antracene e zolfo, che produce una densa nube scura. Il fumo bianco, invece, si ottiene bruciando clorato di potassio, lattosio e colofonia, creando una nuvola chiara e visibile anche da grande distanza. Dal conclave del 2005, per evitare equivoci come quelli accaduti in passato, il Vaticano ha introdotto una seconda stufa elettronica, dedicata esclusivamente alla combustione dei fumogeni, in sincronia con quella delle schede. Da allora, le fumate sono inequivocabili.
E per ulteriore certezza, le campane di San Pietro suonano a festa non appena esce la fumata bianca. Così, nessuno può confondersi: il Papa è stato eletto.
Tra nome e fumo, la Chiesa parla senza parole
Fumo e nome. Due linguaggi antichi, simbolici, potenti. Due segni che, più delle parole, raccontano cosa sta accadendo. Quando il Papa esce sulla Loggia, ha già detto tutto: con il colore del cielo e con la scelta del nome. Leone XIV è già un messaggio. Prima ancora della prima benedizione. Prima ancora del primo discorso.