Il Cremlino ha formalizzato ciò che già si percepiva sul terreno: “La NATO è in guerra con la Russia, non servono altre conferme”. Così Dmitry Peskov, portavoce di Vladimir Putin, ha definito l’Alleanza atlantica come attore diretto del conflitto ucraino. Dichiarazioni che hanno un impatto politico, ma anche economico: più la guerra viene percepita come scontro NATO-Russia, maggiore è la pressione sui Paesi membri per aumentare gli investimenti in sicurezza e difesa.
NATO-Russia, il conflitto si allarga: i costi per l’Italia e il nodo della spesa in difesa
In risposta, il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani ha ribadito che l’Italia darà il proprio contributo alla missione NATO sul fianco Est, rafforzando la difesa aerea in Polonia e negli altri Paesi limitrofi. “Non vogliamo aumentare la pressione con mezzi militari – ha spiegato – ma mostrare che difenderemo i nostri alleati senza esitazione”.
Il ministro ha sottolineato che Roma ha già raggiunto il 2% del Pil di spesa per la difesa, soglia indicata come standard NATO, grazie anche al ricorso al prestito europeo Safe da 15 miliardi. Il ragionamento è chiaro: la deterrenza militare costa, ma serve anche a evitare che lo scenario degeneri in una guerra continentale dai costi incalcolabili.
Crosetto: “contributo italiano già alto”
Più prudente la posizione del ministro della Difesa Guido Crosetto, che ha ricordato come l’Italia sia già tra i primi contributori NATO sul fianco Est, con oltre 2.000 soldati, F-35 ed Eurofighter. “Se verrà formalmente chiesto un incremento valuteremo – ha detto – ma per ora non c’è nessuna richiesta ufficiale, solo dichiarazioni politiche”.
Crosetto ha così posto l’accento sul bilanciamento tra esigenze militari e sostenibilità finanziaria. Ogni ulteriore incremento significherebbe nuovi stanziamenti, in un bilancio pubblico già appesantito dal debito e dalla spesa sociale.
Il costo della deterrenza
Per l’Italia, raggiungere e mantenere il 2% del Pil in spesa militare significa destinare oltre 40 miliardi di euro l’anno alla difesa, una cifra in crescita rispetto ai livelli prebellici. Si tratta di risorse sottratte ad altri capitoli, dal welfare agli investimenti civili, ma considerate necessarie in un contesto di minaccia diretta ai confini europei.
Gli analisti sottolineano come la vera sfida sia rendere efficiente questa spesa: non solo nuovi armamenti, ma investimenti in innovazione, industria della difesa e capacità logistiche, così da generare ritorni anche in termini di filiera produttiva e occupazione.
La dimensione europea
Le dichiarazioni di Peskov puntano a dividere l’Occidente, ma hanno l’effetto di accelerare il dibattito europeo. L’Unione è chiamata a rafforzare il coordinamento sulle forniture militari e a sostenere finanziariamente i Paesi più esposti. In questo quadro, l’Italia rivendica di non essere un “free rider”, bensì un contributore netto, attivo sia a Est sia sul fronte Sud.
Un equilibrio difficile
Il messaggio che arriva da Roma è duplice: da un lato la disponibilità a fare la propria parte nella difesa comune, dall’altro la consapevolezza che ogni incremento di spesa militare pesa sui conti pubblici. La sfida è conciliare la sostenibilità finanziaria con la necessità di deterrenza.
Se la guerra in Ucraina è ormai letta come confronto diretto tra NATO e Russia, la pressione sugli Stati membri non potrà che aumentare. Per l’Italia, già tra i Paesi con più alto debito pubblico, la partita è tanto geopolitica quanto economica: garantire sicurezza senza compromettere la stabilità dei conti.