Tanti interrogativi dopo l'incriminazione del padre del piccolo migrante annegato

- di: Diego Minuti
 
La notizia che arriva dalla Grecia - un richiedente asilo incriminato per la morte del figlio annegato durante il tentativo di raggiungere, dalla Turchia, le coste greche - non è, come pure potrebbe sembrare, una singolare interpretazione della legge da parte di un pedante pubblico ministero, ma il segnale di come e di quanto siano sotto pressione gli ordinamenti giudiziari dei Paesi investiti dalle ondate di immigrati clandestini. Non sappiamo ancora quale sia il reato contestato (le poche informazioni sono state fornite, alla Bbc, dall'avvocato del richiedente asilo), ma qualcosa s'è appreso delle circostanze in cui esso sarebbe maturato.

L'otto novembre un piccola imbarcazione, che trasportava immigrati clandestini dalla Turchia alla Grecia, prima di arrivare a destinazione - forse la costa dell'isola di Samo - . si è capovolta. Nelle fasi concitate che ne sono seguite, un giovane afghano di 25 anni non ha più visto accanto a sé il figlioletto di sei anni. Solo quando ha raggiunto a nuoto la costa ha denunciato alle autorità greche la scomparsa del figlio, il cui cadavere è stato recuperato solo il mattino successivo.

Ora il pubblico ministero greco ha incriminato il giovane afghano (che intanto ha inoltrato la richiesta d'asilo) per avere, con il suo comportamento, determinato le circostanze che hanno portato alla morte del figlio. Una accusa che, se il tribunale lo dovesse ritenere colpevole, potrebbe costargli una condanna a sei anni di reclusione. La linea di difesa del giovane afghano si riassume nel fatto che i soccorsi sono arrivati con molto ritardo e che è stato questo, e non la sua condotta, a causare la morte del figlio. Una accusa alla quale la Guardia costiera greca replica dicendo che i suoi mezzi sono arrivati tempestivamente nel tratto di mare in cui era stato segnalato il naufragio, ma di non avere trovato niente, anche a causa dell'oscurità.

Questi i fatti, per come li si conosce oggi. Ma la riflessione non si può fermare alla cruda analisi degli eventi - veri o presunti -, ma deve andare oltre perché, per la prima volta, viene messo sotto accusa, per la morte di un suo congiunto, chi ha sfidato il mare per raggiungere un luogo che per lui rappresentava un futuro degno di tale nome.
Proprio in questi giorni questo tema é rimbalzato anche in Italia, ma soltanto per un volgare commento fatto da una giornalista sulla morte di un altro bambino, di appena sei mesi, annegato nel Mediterraneo meridionale.

Ed invece, a mio avviso, la riflessione deve essere più ampia e magari riguardare anche chi ci governa. La vicenda dell'isola di Samo non è certo la prima che vede piccole vittime sacrificate sull'altare dell'immigrazione clandestina. Ma è certo la prima in cui un pubblico ministero si pone (e pone anche alla società civile non solo greca) l'interrogativo se può essere punibile penalmente anelare al meglio per sé e la propria famiglia, anche se questo rischia di concludersi con la morte.

Non è un interrogativo solo di profilo giudiziario, perché, nel momento in cui ha scritto il nome del richiedete asilo qualificandolo come imputato per la morte del figlioletto, il pm ha di fatto squarciato il velo di una consuetudine salvifica delle responsabilità che assume su di sé chi si mette in mare in condizioni di assoluto pericolo, nella totale consapevolezza dell'imminente tragedia che si può abbattere.
Se, sui piatti della bilancia della Dea che, con gli occhi bendati, guida chiunque sceglie di fare il magistrato, mettiamo il rischio e la speranza, tutti o quasi indistintamente propendiamo per la seconda, forse perché è stato il sentimento che ha animato ogni rivoluzione (quale che sia stato il loro colore e la loro ideologia). Ma la speranza può cancellare l'evidenza di un pericolo immanente che, se sovrasta i più deboli, può essere mortale?

Traducendo in un esempio concreto, il giovane afghano, mettendo sé stesso ed il figlioletto su una barchetta spinta in un mare certo non amico (visto anche il periodo dell'anno), era consapevole del pericolo? Se sì, evidentemente ha ritenuto che doveva sfidare la sorte, a qualunque costo. Per come ha fatto, pagando un prezzo elevatissimo, che lo ha colpito come uomo e padre.
Forse quella del pubblico ministero greco può ridursi ad una provocazione, anche perché condannarlo per troppo amore non sarà per il richiedente asilo mai peggio del dolore che la morte del figlio gli ha causato.
Ma ora forse è il momento storico che i Paesi europei si pongano anche questa domanda, se cioè fare finta che nulla accada sotto i loro occhi, cancellando colpe o responsabilità.
Scelte, appunto.
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