In un clima di crescente tensione sociale, le proteste contro le politiche migratorie e di sicurezza della nuova amministrazione Trump stanno esplodendo con forza in molte città degli Stati Uniti. L’epicentro è Los Angeles, dove nelle ultime ore si sono registrati arresti di massa durante manifestazioni organizzate davanti agli edifici pubblici e nelle principali arterie cittadine.
Proteste e arresti di massa a Los Angeles, l’America di Trump affronta un nuovo fronte interno
Le autorità locali parlano di centinaia di fermi, molti dei quali eseguiti durante il blocco delle autostrade e i sit-in davanti ai commissariati. Ma il fenomeno non si ferma alla California: cortei e flash mob si sono moltiplicati anche a New York, Chicago, Atlanta, Omaha e Seattle, con ulteriori mobilitazioni previste nei prossimi giorni. Il fronte interno americano, sotto la presidenza Trump, si fa di nuovo incandescente.
Immigrazione e ICE al centro del malcontento
Al cuore della protesta vi è la gestione delle politiche migratorie e, in particolare, la protezione degli agenti dell’ICE, l’Immigration and Customs Enforcement. Nelle ultime settimane, nuove direttive federali hanno imposto operazioni più aggressive nei confronti dei migranti privi di documenti, con rastrellamenti condotti nei luoghi di lavoro, nelle scuole e persino nei centri di accoglienza. Gli attivisti denunciano l’assenza di trasparenza, la separazione forzata delle famiglie e la criminalizzazione di intere comunità. Il governatore della California, Gavin Newsom, ha chiesto un confronto diretto con la Casa Bianca, ottenendo una telefonata con il presidente Trump che, tuttavia, si è trasformata rapidamente in un nuovo terreno di scontro. “Newsom non ha protetto i funzionari dell’ICE”, ha dichiarato Trump, accusando il governatore di “complicità morale” con i manifestanti e di “favorire il caos”.
La risposta federale e il dilemma dell’ordine pubblico
L’amministrazione presidenziale ha reagito con fermezza, autorizzando l’invio di rinforzi federali in supporto alle polizie locali in alcune delle aree più critiche. Ma il nodo dell’ordine pubblico rimane intrecciato a una questione politica profonda. I movimenti civili e progressisti, tornati ad avere visibilità dopo la vittoria elettorale di Trump, accusano la Casa Bianca di repressione sistematica del dissenso. Le immagini di agenti in assetto antisommossa che trascinano via studenti, insegnanti e cittadini comuni stanno già facendo il giro del mondo, alimentando il dibattito sui limiti del potere esecutivo e sul rispetto dei diritti costituzionali. Al tempo stesso, però, una parte significativa dell’opinione pubblica, specialmente nelle aree conservatrici, plaude alla linea dura, vedendola come necessaria per ristabilire sicurezza e legalità.
Un movimento trasversale che rievoca le piazze del 2020
Le proteste di questi giorni ricordano, per ampiezza e radicalità, quelle del 2020 esplose dopo la morte di George Floyd. Ma stavolta non si tratta solo di razzismo sistemico e brutalità della polizia: il bersaglio è un intero assetto istituzionale che molti considerano nemico dei diritti fondamentali. Le rivendicazioni spaziano dalla riforma dell’immigrazione al diritto di asilo, dal rispetto delle minoranze alla richiesta di bloccare la militarizzazione delle città. La componente giovanile è fortissima, ma al fianco degli studenti si schierano sindacati, organizzazioni per i diritti civili, leader religiosi e rappresentanti delle comunità afroamericane e latine. Una coalizione fluida ma determinata, che cerca di contrastare sul piano locale una presidenza percepita come sempre più accentratrice.
I rischi politici per il presidente e le incognite per l’opposizione
Per Trump, le proteste costituiscono un doppio banco di prova. Da un lato gli consentono di rinsaldare il proprio elettorato attraverso un discorso securitario forte, già sperimentato con successo nella campagna che lo ha riportato alla Casa Bianca. Dall’altro, pongono interrogativi sulla tenuta del consenso moderato, soprattutto nelle aree suburbane e negli Stati in bilico. Il presidente si muove su un crinale delicato: presentarsi come garante dell’ordine, senza alimentare ulteriormente la polarizzazione. Intanto, il Partito Democratico appare in affanno: se da un lato appoggia le ragioni dei manifestanti, dall’altro fatica a proporre una linea unitaria che superi la protesta e si trasformi in alternativa credibile di governo.
Una nuova stagione di disobbedienza civile?
Ciò che sta accadendo a Los Angeles e nelle altre metropoli americane potrebbe segnare l’inizio di una nuova stagione di attivismo civile e resistenza dal basso. Le tecnologie digitali, l’esperienza organizzativa maturata negli anni precedenti e un tessuto sociale già mobilitato su temi ambientali e sociali creano le condizioni per una protesta diffusa e persistente. Trump, che ha fatto della lotta ai “nemici interni” uno dei capisaldi della sua retorica, si ritrova ora a governare una società che non accetta passivamente il ritorno a una visione autoritaria del potere. Le piazze americane, ancora una volta, diventano specchio di una democrazia in tensione, dove la lotta per i diritti e per la giustizia sociale si intreccia con il destino politico del Paese.