L’intervento/ La torre crollata e la vita spezzata di Octay
Roma piange l’operaio che non tornerà più a casa. Tra retorica e ipocrisie, resta la polvere di un Paese che non protegge chi lavora.
(Foto: la Torre dei Conti crollata).
Si sono precipitati tutti a Largo Corrado Ricci, a Roma, dopo il crollo della Torre dei Conti. Un manufatto in piedi dal 1200 che implode su se stesso. Tutti a farsi riprendere dalle telecamere con la faccia contrita: dal sindaco con la fascia tricolore, che non manca mai, al ministro della Cultura con i suoi basettoni, a quello dell’Interno e a tutti coloro che avrebbero dovuto vigilare sulla staticità della torre.
Parole di commozione, lutto cittadino con tanto di bandiere a mezz’asta sugli edifici comunali e minuto di silenzio — mi piacerebbe sapere quanti romani l’hanno osservato — ma chi ci ha lasciato la pelle è stato un operaio rumeno di 66 anni, Octay Stroici, che da qualche anno viveva in Italia con la sua famiglia a Monterotondo, un paese alle porte di Roma.
Ha lasciato moglie e figlia. Era molto legato alla sua terra d’origine, dove contava di tornare appena raggiunta l’età della pensione. Octay si spezzava la schiena in cantiere; la moglie lavorava come cuoca ai fornelli di una tavola calda. Entrambi prendevano un treno all’alba per raggiungere i luoghi di lavoro e tornavano col buio. Ma quel maledetto giorno Octay non è tornato.
È rimasto undici ore sotto le macerie a respirare polvere, e a nulla sono valsi gli sforzi dei pompieri per tirarlo fuori. Quella stessa polvere che ha respirato per quarant’anni e che gli ha permesso di pagare gli studi della figlia fino alla laurea. Una soddisfazione immensa per Octay.
Non sappiamo se tutte le misure di sicurezza siano state adottate dalla ditta appaltatrice, ma far svolgere a un uomo di 66 anni attività lavorative in un cantiere — salire su impalcature a decine di metri da terra, trasportare pesi, rimuovere pietre — non sembra proprio il massimo. A quell’età i tempi di recupero fisico sono molto lunghi, soprattutto se hai svolto lo stesso lavoro per decine di anni.
Li chiamano lavori usuranti non a caso. E se ti manca un anno alla pensione, come nel caso di Octay, forse la direzione del cantiere e gli ispettori (se e quando ci sono) avrebbero fatto meglio a impiegarlo in un lavoro meno pericoloso. All’età di Octay non si può più parlare di lavoro usurante: Octay era già usurato.
Adesso partirà il solito teatrino dello scarico delle responsabilità. I sindacati chiederanno leggi più restrittive, quando sappiamo benissimo che quelle esistenti sono carta straccia di fronte alla necessità di lavorare, quando sei costretto ad accettare qualsiasi cosa pur di campare la famiglia.
Entreranno in campo gli avvocati e, tempo qualche settimana, nessuno più si ricorderà di Octay. Come non ci ricordiamo degli altri 681 operai morti dall’inizio di quest’anno.
Ci ricorderemo, però, della portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, che ha detto che Octay è morto perché l’Italia “spende i suoi soldi inutilmente per sostenere l’Ucraina”.
Come diceva Stalin, “un morto è una tragedia, centinaia di migliaia di morti un problema politico”.