Nel tardo pomeriggio di ieri, lungo la Linea di Controllo che separa l’India dal Pakistan nella regione del Kashmir, sono ricominciati gli scambi di colpi. Non si parla solo di fucileria leggera, ma di missili tattici, artiglieria pesante e droni da sorveglianza usati per colpire e ritirarsi. Le versioni ufficiali delle due capitali si accusano a vicenda: Islamabad denuncia provocazioni indiane, Nuova Delhi risponde con il lessico consueto della “legittima difesa”. Intanto, sulle colline contese, a morire sono civili, pastori, donne intrappolate tra due eserciti che si detestano da settantacinque anni.
Kashmir, dove la guerra non finisce mai
Il Kashmir è una ferita aperta. Ma a differenza di Gaza, dell’Ucraina o di Taiwan, qui i riflettori della diplomazia globale restano perennemente spenti. Troppo scomodo. Troppo complesso. Troppo rischioso. I due Paesi coinvolti hanno l’arma atomica e una narrativa nazionale che si alimenta dello scontro permanente. Non serve nemmeno un pretesto: bastano le piogge estive, un pastore che attraversa la linea con il suo gregge, un soldato nervoso, un drone fuori rotta. E la guerra riprende, senza dichiarazione né orari.
Missili e silenzi, mentre Bruxelles chiede moderazione
La sola voce internazionale che ieri si è levata è stata quella dell’Unione Europea. In un comunicato di due righe, Bruxelles ha chiesto “moderazione per salvaguardare i civili”. Un appello protocollare, senza effetto. Nessun piano, nessun mediatore, nessuna iniziativa concreta. Solo una riga di testo, buona per la forma e inutile per i fatti. In Kashmir non ci sono osservatori indipendenti, né media stranieri, né statistiche certe. Solo ambulanze senza sirena e morti che non fanno notizia.
La miccia mai spenta del nazionalismo religioso
Dietro gli scontri di ieri, come dietro tutti gli altri, c’è la tensione costante tra il nazionalismo indù del governo Modi e l’identità musulmana della regione, alimentata dal sostegno — silenzioso ma concreto — del Pakistan. L’abolizione dell’autonomia speciale del Kashmir indiano nel 2019 ha rinfocolato le ostilità. E da allora, la repressione si è intensificata: arresti arbitrari, internet sospeso, libertà di stampa ridotta al minimo. Ogni colpo di mortaio è una risposta, ogni attacco un messaggio.
Il fronte dimenticato che può incendiare il mondo
Nonostante le ambizioni nucleari, le campagne ultranazionaliste e la crescita economica a due cifre, sia l’India che il Pakistan si muovono in uno stato di conflitto latente. Il Kashmir è l’alibi e la minaccia. È il luogo dove i generali testano nuove armi e dove i politici cercano consenso tra funerali e patriottismo. Ogni escalation — anche minima — potrebbe degenerare. Ma il mondo sembra accettarlo come una variabile fissa, una riga nel bollettino della storia. Finché un giorno, forse, salterà qualcosa di più grosso. E sarà troppo tardi per dire che non ce ne eravamo accorti.