In occasione della Giornata Internazionale dell’Educazione, l’Istituto Nazionale di Statistica (Istat) ha diffuso nuovi dati che confermano le difficoltà dei giovani italiani nel passaggio dalla scuola al mondo del lavoro. Secondo l’ultima rilevazione, il 16,1% dei giovani tra i 15 e i 29 anni non è impegnato né in un percorso di istruzione, né in un’attività lavorativa o formativa.
Si tratta dei NEET (Not in Education, Employment or Training), un indicatore chiave dello stato di salute del sistema educativo e del mercato del lavoro. L’Italia si conferma uno dei Paesi europei con la quota più alta di giovani inattivi, ben al di sopra della media UE, che si attesta all’11,2%.
Istat: il 16,1% dei giovani italiani è NEET, ancora lontani dalla media europea
Il divario con il resto d’Europa rimane significativo. Germania, Paesi Bassi e Danimarca registrano i tassi più bassi, con meno del 7% di NEET. La capacità di questi Paesi di integrare rapidamente i giovani nel mondo del lavoro si deve a un sistema educativo più orientato alla formazione pratica e a un mercato del lavoro più dinamico.
Francia e Regno Unito si avvicinano alla media europea, con percentuali rispettivamente del 10,2% e dell’11%. L’Italia, invece, si colloca vicino a Grecia e Bulgaria, dove i valori oscillano tra il 15 e il 17%, evidenziando una maggiore difficoltà nel fornire ai giovani strumenti per entrare nel mondo professionale.
Nord e Sud Italia: un divario interno che si allarga
L’analisi dell’Istat mette in luce anche differenze territoriali marcate all’interno del Paese. Nel Nord e nel Centro Italia, la percentuale di NEET è inferiore alla media nazionale, pur rimanendo più alta rispetto agli standard europei. Al Sud, invece, il fenomeno assume dimensioni critiche, con picchi superiori al 20% in alcune regioni.
Questo divario riflette la persistente difficoltà delle regioni meridionali nel creare opportunità di lavoro per i giovani, accentuata da una minore diffusione di percorsi di formazione professionale e da una più lenta transizione scuola-lavoro.
Le cause di un ritardo strutturale
L’alta percentuale di NEET in Italia è il risultato di più fattori. L’Istat evidenzia come il mismatch tra istruzione e mondo del lavoro rappresenti uno dei principali ostacoli: molte competenze acquisite nei percorsi formativi non trovano riscontro nelle esigenze delle imprese, creando difficoltà di inserimento per i giovani laureati e diplomati.
A questo si aggiunge la scarsa diffusione dell’apprendistato e dell’alternanza scuola-lavoro, strumenti che in altri Paesi hanno dimostrato di facilitare il passaggio dalla formazione all’impiego. Il modello tedesco, ad esempio, punta su un sistema duale che integra studio e lavoro già nei percorsi scolastici, riducendo così il tasso di disoccupazione giovanile.
Un altro fattore critico è la rigidità del mercato del lavoro italiano, che penalizza chi cerca il primo impiego. Rispetto ad altri Paesi europei, l’Italia offre meno opportunità di accesso graduale al mondo del lavoro, con poche esperienze lavorative per studenti e neolaureati e una prevalenza di contratti precari che non garantiscono stabilità a lungo termine.
Le conseguenze di un alto tasso di NEET
L’Istat sottolinea che un’alta percentuale di NEET non ha solo implicazioni individuali, ma rappresenta un problema per l’intero sistema economico e sociale del Paese. La mancata partecipazione dei giovani alla forza lavoro porta a una riduzione del potenziale produttivo nazionale, con un impatto negativo sulla crescita economica.
A livello sociale, il fenomeno aumenta il rischio di marginalizzazione e disagio economico, con un numero crescente di giovani dipendenti dalle famiglie di origine e privi di prospettive di autonomia. Questo scenario contribuisce anche a un calo della natalità, già ai minimi storici in Italia, aggravando la crisi demografica.
Come invertire la rotta?
Secondo l’Istat, per ridurre il numero di NEET è necessario un intervento strutturale che coinvolga il sistema educativo, le imprese e le politiche del lavoro. Tra le misure più urgenti, vi è la necessità di potenziare l’orientamento scolastico e universitario, fornendo ai giovani strumenti per scegliere percorsi di studio più in linea con le richieste del mercato.
La diffusione di percorsi di formazione professionale e apprendistato potrebbe favorire una maggiore occupabilità, così come il rafforzamento delle politiche attive del lavoro, con incentivi mirati per le imprese che assumono giovani e programmi di formazione continua per chi è fuori dal circuito educativo.
L’Italia deve anche investire su un welfare giovanile più solido, che favorisca l’autonomia dei giovani e renda più agevole il passaggio dalla scuola all’età adulta. Il confronto con altri Paesi europei dimostra che soluzioni efficaci esistono e possono essere applicate con risultati tangibili.
Il futuro dei giovani è una priorità nazionale
I dati diffusi dall’Istat in occasione della Giornata Internazionale dell’Educazione sono un campanello d’allarme per l’Italia. Se non si interviene con misure efficaci, il divario con il resto d’Europa rischia di ampliarsi ulteriormente, lasciando indietro un’intera generazione.
Il tema dell’occupazione giovanile deve essere al centro dell’agenda politica ed economica del Paese, con investimenti concreti per colmare il ritardo accumulato negli anni. Un giovane che studia, lavora e costruisce il proprio futuro è una risorsa per la società intera. Garantire opportunità alle nuove generazioni significa investire sulla crescita e sullo sviluppo sostenibile dell’Italia.