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Istat: natalità ancora in calo, fecondità ai minimi storici

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Istat: natalità ancora in calo, fecondità ai minimi storici

La curva delle nascite italiane continua a scendere senza interruzioni. L’Istat certifica che nel 2024 il tasso di fecondità si è fermato a 1,18 figli per donna e che nei primi sette mesi del 2025 il numero di nuovi nati è ancora in calo. Il fenomeno non è più ciclico ma permanente: dal 2008 a oggi si sono persi circa 207mila nati, pari a una riduzione del 35,8%. È il crollo demografico più lungo della storia repubblicana.

Istat: natalità ancora in calo, fecondità ai minimi storici

La riduzione della natalità non dipende soltanto dalle scelte individuali, ma dalla disponibilità sempre più bassa di potenziali genitori. Le coorti nate dalla metà degli anni Settanta in poi sono numericamente più ridotte: si tratta di un problema “di stock” prima ancora che di propensione. Una struttura demografica così contratta produce un inevitabile effetto sul mercato del lavoro e sulle finanze pubbliche: meno giovani significa meno lavoratori, meno contribuenti e maggior peso sugli schemi previdenziali.

Geografia della crisi demografica
I dati provvisori di gennaio-luglio 2025 mostrano un calo particolarmente marcato in Abruzzo (-10,2%) e Sardegna (-10,1%), con una caduta molto più accentuata rispetto allo scorso anno. Seguono Umbria (-9,6%), Lazio (-9,4%) e Calabria (-8,4%). Le riduzioni più contenute si osservano in Basilicata (-0,9%), Marche (-1,6%) e Lombardia (-3,9%). In crescita soltanto Valle d’Aosta (+5,5%), Bolzano (+1,9%) e Trento (+0,6%). Questo quadro territoriale indica un Paese sempre più disomogeneo: aree interne e regioni periferiche perdono giovani più rapidamente, mentre i territori con alto benessere o forte attrattività lavorativa resistono meglio.

Effetti su produttività, welfare e capitale umano
La demografia non è un indicatore lontano dalla realtà economica. Incide sulla disponibilità futura di competenze, sulla sostituzione generazionale delle imprese e sulla tenuta del welfare. Con un tasso di fecondità stabilmente sotto 1,3 figli, l’Italia entra in una fase definita dagli economisti “trappola demografica”: la popolazione in età attiva non rimpiazza più se stessa.

La conseguenza è duplice: – imprese che in prospettiva faticheranno a trovare lavoratori; – un sistema pensionistico che dovrà sostenersi su contribuenti meno numerosi.

Un problema di oggi, non del 2050
L’Istat sottolinea che l’impatto non è differito a lungo termine: la riduzione della base demografica inciderà sul Pil potenziale già nei prossimi 5-10 anni. L’invecchiamento della forza lavoro, se non compensato da nuova natalità o da politica migratoria selettiva, riduce la produttività complessiva e la capacità di innovazione. Il tema non riguarda soltanto la natalità “in astratto”, ma la competitività della struttura produttiva.

Politiche familiari insufficienti se isolate
Gli incentivi monetari una tantum (bonus, assegni, detrazioni) hanno effetti limitati se non inseriti in un contesto di stabilità occupazionale, servizi all’infanzia accessibili e costi abitativi sostenibili. L’esperienza comparata dei Paesi del Nord Europa mostra che l’aumento della natalità si verifica dove le politiche agiscono su tre piani contemporaneamente: lavoro femminile stabile, servizi educativi capillari, tempi di vita compatibili con la genitorialità. L’Italia resta in ritardo su tutti e tre.

La variabile immigrazione

Il rapporto Istat non si esprime in chiave prescrittiva, ma il dato implicito è chiaro: senza un flusso costante e qualificato di nuovi ingressi il rapporto tra popolazione attiva e inattiva continuerà a peggiorare. La demografia italiana non è più in grado, da sola, di sostenere la base contributiva. Questo rende il tema dell’immigrazione non un capitolo separato, ma parte integrante della sostenibilità economica.

Un avvertimento per policy e conti pubblici
La natalità a 1,18 figli per donna è un segnale destinato a riflettersi su mercato del lavoro, welfare locale e bilanci statali. Il Paese si avvia verso un ciclo di “bassa forza lavoro strutturale”, mentre la richiesta di servizi sanitari e assistenziali continuerà a crescere. L’Istat, di fatto, fotografa un trend che non è più statistico ma economico: meno nascite oggi significa meno crescita domani.

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