Nel libro "Proteggere il futuro", Luca Dal Fabbro (Presidente Esecutivo del Gruppo Iren) riflette sulle sfide globali e sulla necessità che l’Europa ritrovi una visione strategica unitaria in un mondo multipolare. Parla di una “potenza gentile” europea, della possibilità di armonizzare il Piano Mattei con il Global Gateway, e dell’urgenza di superare la dipendenza da Paesi terzi per le materie critiche. Al centro del suo pensiero c’è il concetto di trilemma esteso, una chiave per affrontare le grandi transizioni. Sottolinea il ruolo centrale delle aziende come “sistemi adattivi intelligenti”, capaci di integrare transizione energetica, digitale e geopolitica. E invita a costruire alleanze trasversali tra pubblico, privato e società civile, per un nuovo modello di sviluppo.
Iren, Luca Dal Fabbro: "L'Europa deve scegliere sé stessa: visione, autonomia, alleanze"
"Proteggere il futuro" è una guida ottimista e puntuale sulle sfide e i cambiamenti del nostro tempo. Partendo da una dimensione globale, la competizione tra USA e Cina ritiene possa svegliare l’Europa come potenza?
La competizione tra USA e Cina certamente rappresenta una spinta alla riflessione e al risveglio per l’Europa, ma è anche un’opportunità: non per scegliere da che parte stare, ma per scegliere sé stessa. L’Unione Europea ha le competenze, il capitale umano, la forza manifatturiera e - non dimentichiamolo - una cultura della sostenibilità radicata nella propria storia. Va integrata una visione industriale unitaria e una vera sovranità tecnologica. Come ho scritto nel capitolo dedicato alle nuove geopolitiche, siamo in un mondo multipolare dove l’interdipendenza non scompare, ma si trasforma. La cooperazione tra aziende, università e Stati è indispensabile, ma non basta più: serve una visione europea che investa con forza su ricerca, standard industriali e autonomia strategica.
Nel libro evidenzia il ruolo dell’Europa e la presenza di un’Italia più forte in modo da favorire una visione geopolitica europea, specialmente in ambito strategico. Ritiene che i governi europei stiano facendo abbastanza per far sì che l’Europa parli con una sola voce? Come si riconcilia il Piano Mattei con l’EU Global Gateway?
Purtroppo no, l’Europa continua a parlare con ventisette accenti diversi, soprattutto in politica estera ed energetica. Serve una ‘visione di potenza gentile’ per l’Europa, che sia industriale ma anche sociale e ambientale. Il Piano Mattei può essere uno strumento efficace se riesce a inserirsi nella cornice del Global Gateway europeo, diventando un’azione coerente e sinergica con le priorità europee. Il rischio, altrimenti, è creare politiche parallele, in concorrenza tra loro. Dobbiamo fare sistema, non bandiere.
Una delle soluzioni individuate nel libro è rappresentata dal trilemma esteso come nuovo paradigma per concepire le soluzioni. Cosa intende?
Il trilemma esteso è un’evoluzione del noto concetto secondo cui è difficile ottenere contemporaneamente tre obiettivi: accessibilità, sicurezza e sostenibilità dell’energia. Quello che propongo nel mio libro è di estenderlo alla gestione delle risorse più critiche, alla produzione industriale, alla digitalizzazione. Ogni grande transizione – che sia energetica, digitale o geopolitica – comporta la necessità di trovare un equilibrio tra interessi apparentemente in conflitto. Il trilemma ci costringe a pensare in modo sistemico, a integrare piuttosto che separare.
Quali sono le maggiori criticità per l’Europa in merito all’approvvigionamento di materie critiche?
L’Europa ha una dipendenza strategica inaccettabile da Paesi terzi per le materie prime critiche. Come evidenziato nel libro, il 98% delle terre rare viene dalla Cina, il 68% del cobalto dalla Repubblica Democratica del Congo. Questo ci rende vulnerabili. Serve un meccanismo europeo che incentivi il riciclo avanzato - come quello che stiamo sviluppando in Iren - e la diversificazione delle fonti, investendo in filiere europee e in partenariati strategici con Paesi affidabili.
In che modo le aziende possono gestire la “complessità sistemica” senza aumentare eccessivamente il rischio degli investimenti?
La complessità sistemica non si elimina, si governa. Le aziende devono diventare ‘sistemi adattivi intelligenti’, capaci di leggere i segnali deboli e reagire in tempo reale. Digitalizzazione, transizione energetica e la mutazione degli equilibri geopolitici non sono processi in opposizione, ma vanno integrati. È vero che l’AI consuma energia, ma può anche ridurla se usata per l’efficienza. In Iren, per esempio, usiamo algoritmi per ottimizzare il consumo idrico ed energetico delle città. Il punto è non pensare per compartimenti stagni. Serve un pensiero interconnesso.
Entrando nello specifico della transizione energetica, come immagina l’evoluzione delle politiche ambientali e di sostenibilità nei prossimi dieci anni?
Andremo verso un’ibridazione tra tecnologie diverse. Le rinnovabili sono la spina dorsale della transizione, ma da sole non bastano. È probabile che alcuni settori hard-to-abate, come l’acciaio o il cemento, abbiano bisogno di più tempo per ricorrere alle soluzioni tecnologiche che renderebbero la transizione economicamente sostenibile. L’importante è che sia parte di una strategia integrata e non un alibi per ritardare la decarbonizzazione. Le politiche ambientali saranno sempre più orientate a risultati misurabili e su base scientifica. Dovranno anche diventare strumenti di competitività industriale, non solo obblighi normativi.
In un’epoca di polarizzazione, chi, secondo lei, possiede il capitale politico necessario per affrontare la triplice sfida con un approccio effettivamente sistemico e adattabile nel tempo come lei propone?
Servono leadership ibride, o anche un modello di leadership diffusa. Né solo politiche, né solo imprenditoriali. Chi ha visione oggi deve costruire alleanze tra pubblico, privato, mondo della ricerca e società civile. In questo senso, l’impresa può e deve farsi promotrice di un nuovo patto sociale. Non siamo spettatori della transizione, ne siamo protagonisti. Lo dico anche nel libro: ‘non è solo questione di tecnologie o risorse, ma di fiducia e di governance condivisa’. L’Europa può essere il laboratorio di questo nuovo modello di sviluppo. A condizione che lo voglia davvero.