Finso, Luciano Tancredi: "La comunicazione dev'essere competente, empatica, senza filtri"

- di: Redazione
 
Una personalità creativa e poliedrica, che ha già passato tutta la ‘tastiera’ del mondo della comunicazione, da quella giornalistica in senso stretto sia in un quotidiano che in Tv, a quella dell’autore televisivo, a quella della comunicazione istituzionale e societaria, delle relazioni esterne e istituzionali, senza farsi mancare importanti esperienze di docenza a livello universitario. Una mole di esperienze e di conoscenze che ne fanno un vero personaggio. In questo faccia a faccia conosciamo da vicino Luciano Tancredi, direttore Public Affairs e Communication di Finso (Fincantieri Group) e nello staff Public Affairs di Fincantieri Spa.

Lei ha una personalità poliedrica, come testimonia il suo ricco curriculum: nelle varie fasi della sua vita è stato giornalista, (tra cui inviato di guerra), caporedattore del Messaggero, autore di importanti programmi televisivi (tra cui “Vita in diretta” su Raiuno a “Chi l’ha visto?” su Raitre), docente universitario, comunicatore, opinionista e adesso esperto di relazioni istituzionali. Chi è nel profondo Luciano Tancredi? C’è un fil-rouge che lega queste attività, certamente diverse ma per molti aspetti comunicanti?
Senza dubbio la voglia di raccontare, quella passione che lega tutti i lavori in cui mi cimento. Ero convinto che avrei fatto il giornalista nella carta stampata per tutta la vita, il mio primo grande amore, ma quando ho capito che non avevo più la possibilità di raccontare le cose come le vedevo io, ho preferito dare un taglio netto e lasciare. A conti fatti, ho fatto bene: andando avanti ho trovato mondi più interessanti, nuove esperienze, persone diverse e spesso migliori. È stata dura reinventarsi ogni volta, ma lo consiglio a tutti; non fossilizzatevi in un lavoro che non vi gratifica più, abbiate il coraggio di dire di no e di cambiare, continuate ad imparare e sarete premiati.

È un professionista della comunicazione a tutto tondo e quindi gode di un punto di osservazione privilegiato. Come è cambiato (e cambierà ancora) l’ecosistema della comunicazione sotto la spinta della digitalizzazione? Quali le potenzialità ma quali anche i rischi?
Con la pandemia c’è stata una brusca accelerazione del cambiamento, la spinta della digitalizzazione è stata necessariamente fortissima, e molto ancora lo sarà: la comunicazione dev’essere competente, empatica, senza filtri. L’opinione pubblica vuole sapere, subito. Vuole più punti di vista per formarsene uno proprio, non appiattirsi su dogmi. Le potenzialità sono infinite per la crescita personale e sociale, i rischi sono un’eccessiva volubilità e spesso radicalizzazione di scelte e idee.

Tra un passaggio professionale e l’altro della sua vita, qual è stato il più complicato dal punto di vista personale? E quale quello che l’ha arricchita di più?

Il più complicato senz’altro quando ho preso la decisione di lasciare il giornale dove sono entrato a 20 anni e cresciuto, lasciando alcuni colleghi con i quali ho condiviso momenti irripetibili dal punto di vista professionale, penso alla morte di Papa Woityla o al terremoto dell’Aquila. Il momento che mi ha arricchito di più è stato quello subito dopo aver preso quella decisione.

Lei è stato anche un comunicatore delle Istituzioni, avendo ricoperto il ruolo di responsabile della comunicazione dell’allora Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giovanni Legnini, poi vicepresidente del Csm e ora commissario straordinario per la ricostruzione post-terremoto. Si parla non bene della comunicazione istituzionale, risultando a molti paludata, poco chiara, talvolta perfino criptica. Lei come l’ha vissuta? Come a suo parere dovrebbe cambiare?
Sta già cambiando, grazie a una pattuglia di giovani comunicatori che stanno scalzando le paludate formule della vecchia generazione. Come l’ho vissuta? Cercando di dare il mio piccolo contributo al cambiamento. E la provenienza dal giornalismo sul campo, le assicuro, dà alla comunicazione una marcia in più. Le linee guida del cambiamento sono obbligate: centralità del cittadino, trasparenza, chiarezza, apertura dei dati e delle informazioni e loro condivisione attraverso le nuove tecnologie digitali.

Un confronto è d’obbligo. È direttore Public Affairs e Communications di Finso, la newco con cui il Gruppo Fincantieri entra non solo nel segmento della costruzione di ospedali, ma anche nella gestione degli stessi e nella fornitura di attrezzature biomedicali. Fa parte dello staff Public Affairs della capogruppo Fincantieri Spa, colosso della cantieristica navale e maggior gruppo navale d’Europa. Quali oggi le differenze principali tra la comunicazione di un’Istituzione pubblica e quella di un’importante Società, benché controllata al 71,32% da Cassa Depositi e Prestiti Industria S.p.A e quindi a partecipazione pubblica?

Lavoro affinché queste differenze non ci siano. Entrambe devono essere trasparenti, devono avere la stessa lealtà, cura e attenzione nei confronti del cittadino come del cliente.

Ha lavorato in un importante quotidiano. Il settore, almeno nella sua versione cartacea, è da tempo in forte declino, trovandosi in una terra di mezzo tra il ‘già’ (l’edizione cartacea) e il ‘non ancora’ (la profittabilità dell’edizione digitale). Cosa accadrà nei prossimi anni? Hanno ragione quegli esperti i quali affermano che la crisi del settore verrà gradualmente superata quando gli editori decideranno di fare dell’edizione digitale la realtà primaria e di quella cartacea quella secondaria, invertendo l’ordine attuale? Oppure c’è una terza via?
Non ho mai creduto che la crisi del cartaceo sia un effetto della crescita del digitale, piuttosto della perdita di credibilità di tante testate sotto i colpi, e i tagli, di editori che tutto si stanno dimostrando meno che “puri”. Cartaceo e digitale possono benissimo convivere, non sono in conflitto, ognuno con le proprie peculiarità e la propria mission, basta che la barra sia quella della corretta informazione e del rispetto del lettore. Per questo non sono affatto ottimista, purtroppo.

Restando sul tema, lei è membro della giuria del Premio Ischia, considerato da 42 anni la festa del giornalismo mondiale e della comunicazione ma anche l’occasione per rileggere, grazie ad una giuria di esperti qualificati, un anno di informazione. Per l’Edizione 2021 avete già proclamato i vincitori del Premio Ischia Comunicatore, che saranno premiati nell’evento del 4 settembre. Che aria tira nei vari segmenti del mondo della comunicazione italiana? Quali i sentimenti prevalenti?
Questo è il secondo anno consecutivo nel quale, in accordo con i patron Benedetto ed Elio Valentino, in giuria abbiamo deciso di sdoppiare il premio, aggiungendo alla comunicazione d’impresa quella istituzionale. Siamo stati obbligati perché la pandemia ha messo in posizione centrale le istituzioni e il loro modo di comunicare. Lo hanno fatto, nella maggior parte dei casi, con competenza, empatia e trasparenza. Per questo, mai premi sono stati così meritati come quello dello scorso anno a Giovanni Grasso, portavoce del Presidente Mattarella, e di quest’anno a Mario Viola, capo della comunicazione della Polizia di Stato.

Come vede il futuro della Tv? C’è un gran fermento a livello internazionale: integrazione delle piattaforme, concentrazioni per fare massa critica e chi più ne ha più ne metta.
Io vengo dalla Tv generalista e purtroppo per questa non vedo un gran futuro: platea sempre più avanti nell’età, poca voglia di rinnovarsi e cercare nuove strade per riportare i giovani davanti allo schermo, informazione paludata sono i legacci che la frenano e la condannano a un eterno guardarsi indietro. Ormai ci sono due Tv, una viva e proiettata nel futuro, penso alle grandi piattaforme che hanno il monopolio delle produzioni importanti e sanno valorizzare i giovani talenti, l’altra, quella generalista, morente, ripegata su se stessa.

Dal suo punto di osservazione che aria sta circolando in Italia? Qual è il mood del Paese? L’Istat indica una forte ripresa della fiducia sia da parte delle famiglie che delle imprese. È un fuoco di paglia derivante dall’allentarsi del morso della pandemia o percepisce che gli italiani ci credano davvero alla possibilità di uscire dal tunnel del declino in cui il Paese è infilato da oltre 20 anni?
Non solo ci crediamo, ma siamo sicuri di riuscirci. La classe dirigente ha capito il momento storico, la sua complessità, e, seppur non riesca a rinunciare a qualche deriva propagandistica, si sta comportando con serietà e diligenza. Il cittadino lo avverte e la fiducia cresce. Sono ottimista per il futuro del nostro Paese.

Non smentisca la sua poliedricità creativa. Cosa c’è nel futuro, prossimo o meno, di Luciano Tancredi? E una curiosità importante, per capire meglio la sua personalità: che cosa ama leggere?
È vero che amo cambiare, ma sto bene dove sono. Fincantieri è una bellissima azienda, leader nel mondo e portabandiera della creatività e dell’ingegno italiano: sono felice e fiero di farne parte. Amo leggere e leggo - quasi - di tutto. Da quando avevo cinque anni leggo in media un libro a settimana - da ragazzino adoravo il maggiordomo Jeeves di Wodehouse e i libri di formazione, ma anche Fantozzi - ora solo a casa ne ho quasi quattromila, spolverarli è sempre più faticoso! La letteratura inglese contemporanea da Coe a Welsh, americana da Salinger a Auster, quella ebraica di Singer e Roth, la mia grande passione, i grandi classici come il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa o Furore di Steinbeck, irraggiungibili, i gialli di Connelly, Winslow e Nesbo, ma anche la saga di Montalbano di Camilleri: divoro un po’ di tutto. I libri da sempre mi aiutano a vivere meglio e sono parte integrante, fondamentale, di ogni lavoro che affronto.
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