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L’Intervento / Dazi: è la fine della globalizzazione?

- di: Matteo Mariotti, economista
 
L’Intervento / Dazi: è la fine della globalizzazione?
L’annuncio di nuovi dazi da parte del governo statunitense ha scatenato un terremoto sui mercati finanziari globali, mandando in tilt borse, analisti e governi di ogni latitudine. Dai salotti televisivi alle colonne dei quotidiani, un coro unanime sembra levarsi: “È la fine della globalizzazione”. Economisti, opinionisti e politici di ogni colore si affannano a dipingere un futuro in cui il mondo, un tempo interconnesso, si richiude su se stesso. Ma è davvero così? Siamo di fronte al crepuscolo di un’era o solo a un nuovo capitolo di una storia che si ripete da secoli? Per capirlo, serve fare un passo indietro e guardare oltre i titoli sensazionalistici.

Le tre vite della globalizzazione
Prima di tutto, cos’è la globalizzazione? Non si tratta di un concetto astratto o di un’utopia di commercianti senza frontiere. La globalizzazione, in termini concreti, è il controllo delle arterie del commercio mondiale: istmi, canali, rotte marittime. È la capacità di dominare il flusso del 90% delle merci che viaggiano via mare, il vero motore dell’economia globale. E non è una novità del nostro tempo.

L’umanità ha già vissuto tre grandi fasi di globalizzazione, ciascuna segnata dal dominio di una potenza sulle onde.
La prima fu la Pax Romana, nata sulle ceneri della sconfitta di Cartagine per mano di Roma. Dopo secoli di guerre puniche, i romani trasformarono il Mediterraneo in un “lago” commerciale, un mercato unico sotto il loro controllo ferreo. Le galee romane pattugliavano le coste, garantendo sicurezza e profitti, mentre merci come olio, grano e vino attraversavano il mare senza ostacoli. Fu una globalizzazione ante litteram, limitata ma rivoluzionaria per l’epoca.

Poi arrivò la Pax Britannica, il dominio dei mari targato Regno Unito. Nella seconda metà dell’Ottocento, durante l’Era Vittoriana, la Royal Navy regnava incontrastata sugli oceani. Dalle coste dell’India al Canale di Suez, Londra teneva in pugno le rotte commerciali, imponendo la sua visione del mondo. Ma quel dominio si infranse con la Prima guerra mondiale, quando il testimone passò agli Stati Uniti. Ecco la Pax Americana, l’era che viviamo oggi. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, le flotte a stelle e strisce presidiano i punti nevralgici del commercio marittimo: dallo Stretto di Hormuz al Canale di Panama, garantendo che il mondo resti aperto agli scambi sotto l’egida statunitense.

Dazi e libero commercio: un equivoco storico
Ma allora, se la globalizzazione è una questione di controllo marittimo, cosa c’entrano i dazi? Qui entra in gioco un “malinteso”, alimentato da decenni di propaganda. Si tende a confondere globalizzazione con libero commercio, come se fossero due facce della stessa medaglia. Nulla di più sbagliato.

Il libero commercio, inteso come assenza di barriere tariffarie, non è mai esistito nella storia. Tribù, regni, nazioni: da sempre l’uomo ha imposto dazi, tasse e divieti per proteggere i propri interessi o colpire quelli altrui. Pensiamo alle guerre commerciali tra Venezia e Genova nel Medioevo o alle tariffe protezionistiche dell’America ottocentesca. Non è una novità, né un’eccezione.

Il libero commercio è invece un’idea, un pilastro del liberismo, quella dottrina economica nata dalle opere di Adam Smith e David Ricardo. Secondo i suoi principi, il mercato dovrebbe autogestirsi, con Stati ridotti a semplici spettatori. Non si tratta solo di commercio internazionale: il liberismo promuove deregolamentazione, concorrenza sfrenata e proprietà privata in ogni ambito dell’economia. I dazi, in questo senso, sono un’eresia per i puristi del libero mercato.

Ma la globalizzazione? Quella può sopravvivere anche con le tariffe, perché il suo cuore non è la libertà degli scambi, ma il dominio delle rotte.

La Cina e la sfida della Nuova Via della Seta
A complicare il quadro c’è la Cina, che da oltre un decennio sta cercando di riscrivere le regole del commercio internazionale. Incapace di sfidare la supremazia navale americana, Pechino non è una talassocrazia: il Dragone ha puntato sulla terraferma. Nel 2013, il presidente Xi Jinping ha lanciato la Belt and Road Initiative (BRI), la “Nuova Via della Seta”. Un progetto titanico, con investimenti miliardari in strade, ferrovie, porti e infrastrutture, che collega Asia, Europa e Africa.

Oggi, la BRI coinvolge oltre 140 paesi, abbraccia il 60% della popolazione mondiale e rappresenta un terzo del PIL globale. Un colosso economico che richiama l’antica Via della Seta, ma con un “twist” moderno: non solo commercio, ma influenza geopolitica. Ufficialmente, la Cina parla di cooperazione e sviluppo. Ma dietro le quinte, l’obiettivo è chiaro: erodere il primato americano, costruendo una rete alternativa di potere e scambi.

Eppure, il piano di Pechino ha un tallone d’Achille. La Cina è un paese diviso: le coste, aperte al commercio globale, prosperano, mentre l’entroterra rimane indietro, povero e isolato. Ogni apertura al mondo ha storicamente ampliato questo divario, alimentando tensioni sociali che il regime comunista fatica a gestire. Se Xi Jinping non troverà un modo per redistribuire equamente la ricchezza, la sua contro-globalizzazione potrebbe implodere sotto il peso delle sue contraddizioni.
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