Francesco Giorgino, storico volto del Tg1 e oggi direttore dell’Ufficio Studi Rai, unisce esperienza giornalistica e ricerca accademica in una visione integrata della comunicazione. Per lui, il valore della notizia resiste ma deve adattarsi al pubblico interattivo e all’innovazione tecnologica. Critica l’“informazione senza giornalismo” e valorizza il ruolo della Rai come digital media company. “Lo storytelling autentico costruisce fiducia, la propaganda sfrutta il falso”. E richiama a una regola essenziale: coerenza tra identità e immagine.
Giorgino: ecco come cambiano comunicazione, informazione e marketing
Lei ha legato la sua vita professionale alla Rai e all’università. Quanto l’esperienza giornalistica e nei media e quella accademica si sono contaminate a vicenda, arricchendosi reciprocamente?
Ho sempre affermato che è un grande privilegio poter fare quello che studio e studiare quello che faccio. L’inizio del mio percorso accademico alla Sapienza nel 2000, dove ho insegnato per molti anni Istituzioni di Sociologia della Comunicazione e Newsmaking prima di approdare nel 2014 alla Luiss, ha coinciso con il consolidamento della mia attività di giornalista al Tg1. Testata in cui sono stato redattore ordinario, caposervizio, vicecaporedattore, caporedattore e caporedattore centrale (a lungo della redazione politica), vice direttore, ma anche conduttore dell’edizione delle 13,30 e delle 20,00 e di molte trasmissioni speciali in day time e prime time. Il piano del “saper fare”, come si dice nel linguaggio scientifico, si è coniugato con quello del “sapere” e viceversa. Il vantaggio di uno studioso che opera nell’ambiente che è anche oggetto principale della propria ricerca scientifica e della speculazione epistemologica consiste proprio nella possibilità di traslare con maggiore facilità ed efficacia il livello teorico dell’argomentazione nell’esemplificazione pratica. Non solo. Consiste anche nel portare avanti con determinazione, almeno a livello metodologico, dinamiche di falsificazionismo, per dirla con Popper. In questo modo da un lato è possibile aggiornare continuamente la letteratura scientifica, dall’altro è possibile renderla capiente rispetto alle trasformazioni continue e ai cambiamenti. Parziali o totali che siano.
La notiziabilità e le logiche di selezione e gerarchizzazione delle notizie sono al centro dei suoi studi, anche se non sono gli unici ambiti disciplinari e di ricerca nei quali è impegnato. Secondo lei, quali criteri sono universali e quali, invece, cambiano con il mutare dei contesti politici, economici e culturali?
La notiziabilità, ovvero il percorso di trasformazione di un accadimento in ‘notizia’ in quanto prodotto finito e finale, si costruisce attraverso processi che afferiscono alle quattro fasi del Newsmaking: selezione, gerarchizzazione, trattamento e tematizzazione. La selezione, in particolare, si fonda su un piano assiologico che è rappresentato da grandi ‘valori notizia’ come la semplificazione, l’identificazione, lo human interest (che si costruisce facendo incontrare e a volte scontrare interesse ed importanza), ma anche dai valori notizia intermedi, come la frequenza, la soglia, la novità, la consonanza, il bilanciamento tematico. Ai valori notizia vanno aggiunti i fattori notizia, il piano ideologico. Stiamo parlando dei fattori relativi a nazioni e persone d’elite, alla personificazione e alla negatività delle conseguenze: quest’ultimo riassumibile nel motto ‘bad news is a good news’. Completano il quadro i criteri notizia, che in pratica rappresentano il piano empirico della notiziabilità. Abbiamo criteri relativi al luogo, al tempo, alla persona, al pubblico, al mezzo e alla concorrenza. È un assetto quello qui da me raccontato che sicuramente resiste all’usura del tempo visto che si riferisce all’ontologia del giornalismo e alla principale connotazione dell’informazione, ma che si sottopone anche alla presenza di almeno due grandi variabili. La prima riguarda l’innovazione tecnologica che nel giornalismo comporta il ricorso al digitale e all’intelligenza artificiale. La seconda riguarda l’evoluzione del pubblico, che non è più passivo e neanche solo attivo, essendo diventato interattivo. Contestualmente pesano le caratteristiche socio-politiche, socio-economiche e culturali dei singoli Paesi.
La comunicazione digitale ha rivoluzionato linguaggi, tempi e rapporti con il pubblico, come lei ha appena sottolineato. A suo giudizio, quali errori compiono più spesso i media tradizionali nel tentativo di adattarsi a questo ecosistema in continua evoluzione?
Onestamente non parlerei di errori, ma di difficoltà oggettive e quindi strutturali nel portare avanti logiche di adattamento continuo all’ecosistema comunicativo digitale. Si tratta di un ambiente in cui convivono media mainstream e nuovi media, piattaforme incluse. È un processo complesso, specie quando ha a che fare con target appartenenti alla generazione Z e Alpha. Tuttavia, se c’è visione e se c’è reale investimento tecnologico, se si lavora su conoscenze e competenze avanzate degli operatori mediali e newsmediali si riesce a performare bene. Le faccio un esempio. La tv generalista, nonostante ciò che qualcuno un po’ frettolosamente dice in giro, è ancora la prima fonte d’informazione degli italiani, anche se deve misurarsi con la concorrenza aggressiva del web e delle cosiddette fonti non editoriali. Il riferimento è a quello che nei miei lavori scientifici ho definito “informazione senza giornalismo”. Detto questo, va affermato che la Televisione non sta con le mani in mano e che non subisce il cambiamento. Al contrario, prova a governarlo. In Rai abbiamo capito prima di altri media, ponendoci il problema di come trasformarci da broadcaster a digital media company di servizio pubblico, che la fruizione dei contenuti e dei mezzi non poteva più avvenire in modalità lineare e sincrona, ma doveva coinvolgere anche le piattaforme. Abbiamo anche avviato una riflessione sull’uso dell’intelligenza artificiale, una tecnologia impattante che si articola in diverse tipologie attuative: descrittiva, predittiva, prescrittiva, generativa (la più problematica, specie quando i contenuti sono informativi). Si consideri anche il primato del Tg1 tra le testate televisive presenti e operanti nelle piattaforme social. Riprova che i diversi mezzi possono convivere tra loro e che ibridando i linguaggi si possono ottenere risultati importanti. Del resto, una delle prime teorie della comunicazione è quella che considera il valore aggiunto del processo di accumulazione dei media e non certo quello del processo di sostituzione. C’è spazio per tutti, a condizione che si capisca che l’unica strada percorribile è quella della diversificazione in base a funzioni, linguaggi, formati, contenuti e pubblici.
La comunicazione politica e quella d’impresa hanno logiche diverse, ma entrambe hanno assunto dinamiche sempre più narrative. Dove si colloca oggi il confine tra storytelling e propaganda?
Sovente si commette un errore: si confonde la comunicazione con la semplice connessione. Per comunicare occorre che tra emittente e ricevente non ci sia solo la trasmissione di una risorsa cognitiva, emozionale, esperienziale dall’emittente al ricevente, ma una vera e propria condivisione di senso tra i due poli del processo comunicativo, per dirla con Lasswell. Occorre che tra la codifica e la decodifica del messaggio ci sia sovrapponibilità e che si recuperi il valore del contesto affinché ci sia reale comunicazione. Si tratta di una premessa indispensabile per capire come si muove sia la comunicazione politica, sia quella aziendale. La prima punta a creare un effetto conativo delicato come il consenso elettorale, a volte anche con un tone of voice propagandistico e mistificatorio. Consenso da cui dipende la realizzazione del mandato conferito dall’elettorato attivo (i cittadini) all’elettorato passivo (gli attori politici) affinché si individuino le soluzioni più efficaci in termini di policy. La seconda punta a creare le condizioni affinché le aziende rappresentino con chiarezza il purpose e la value proposition, generando reputazione e attenzione nel mercato. Il compito della corporate communication non è quello di generare consenso abilitante e confermante come in politica, ma quello di agevolare, attraverso forme diversificate di comunicazione di brand e di prodotto, il posizionamento della marca e contemporaneamente l’engagement di consumatori e stakeholder. Lo storytelling è una modalità di comunicazione che agevola la creazione di un legame fiduciario tra brand e cittadino e tra brand e consumatori, ma sempre su presupposti di autenticità e con radicamento alla realtà. Il brand può essere politico, aziendale o personale. Poco importa. Fare storytelling significa operare lungo una traiettoria di senso che parta da un “dispositivo narrativo madre” per poi approdare a “narrazioni figlie” ma muovendosi sempre e comunque nell’ambito della comunicazione veritiera e trasparente. La propaganda, invece, si alimenta quasi sempre di strategie di persuasione dell’opinione pubblica che sfruttano il falso e il verosimile, che operano forzature sul piano del significato. Tutto è al servizio dell’obiettivo da perseguire. Costi quel che costi.
Lei alla Luiss è professore di marketing, oltre che di comunicazione. Il Content Marketing è ormai indispensabile per enti pubblici e privati. In che modo la capacità di creare contenuti può fare la differenza in termini di reputazione e di consenso?
I contenuti sono uno strumento molto utile per agevolare il passaggio dall’era del marketing esclusivamente transazionale a quella del marketing conversazionale. Oggi il marketing non è più outbound, ma inbound. Si basa, cioè, sull’attrattività del mercato. Cosa c’è di più efficace di un contenuto elaborato e distribuito secondo i parametri della qualità, della partecipazione e dell’implementazione del livello motivazionale. L’intero customer decision journey è stato aggiornato. Se all’inizio l’obiettivo era quello di moltiplicare i touch point tra brand e consumatore, oggi si va ben oltre la loyalty. Oggi bisogna puntare alla brand advocacy e alla brand community, ovvero all’attivazione del passaparola di una user experience positiva e del senso di appartenenza ad una vera e propria comunità. Non dimentichiamoci poi che la reputazione si costruisce con azioni strutturate e reiterate nel tempo, ma partendo da una brand identity e da una brand image che anzitutto devono essere coerenti tra di loro. Prima viene l’identità e poi l’immagine. Con l’identità e l’immagine si costruisce la reputazione. La politica sta facendo ampio ricorso alle tecniche di marketing in contesti che non sono sempre legati alle scadenze elettorali. Allo stesso tempo, anche la Pubblica Amministrazione si sta ponendo il problema di implementare il proprio valore percepito e di individuare le strategie che consentono di portare avanti la logica del citizen relationship management.
Che peso ha oggi la narrazione d’impresa nella costruzione di un rapporto stabile e autentico con i cittadini-consumatori, sempre più diffidenti verso la pubblicità tradizionale?
Un peso enorme. Teorie come il brand activism e come quella della co-creazione dei contenuti secondo un approccio non più verticale ma orizzontale ci dicono chiaramente che l’interruption marketing non è più da tempo la soluzione al problema. Ci si deve muovere ormai solo lungo la strada del permission marketing. Il consumatore non deve subire la scelta, ma deve portarla avanti con il massimo di consapevolezza e di responsabilità. La marca ha bisogno di fare comunicazione anche sui propri valori e i propri intendimenti e non solo sul prodotto. I brand attivi dal punto di vista sociale, ambientale, culturale, politico sono anche quelli più credibili, specie agli occhi dei consumatori più giovani. In ambito digitale il modello del “display advertising” (il vecchio bunner, per intenderci) è stato affiancato da quello del “native advertising”. Questa soluzione funziona perché tende a correlare il contenuto pubblicitario a ciò che ha ispirato di più la fruizione del mezzo e la navigazione in modalità pull da parte del pubblico, sempre in base ai propri interessi, alle proprie necessità, ai propri desideri.
La sua carriera è immersa nell’attualità, ma lei ha sempre sottolineato l’importanza del passato come fonte di comparazione. Quali lezioni storiche ritiene fondamentali per comprendere meglio il presente e orientare le scelte future dell’impresa?
Se penso al mondo dell’impresa non posso che far riferimento a chi ha fatto in passato scelte lungimiranti. Un nome per tutti: Adriano Olivetti. L’essere umano, ma il discorso è estensibile anche alle organizzazioni e alle istituzioni, si completa davvero e si realizza quando riesce a tenere insieme passato, presente e futuro. I tre tempi dell’esperienza umana, come diceva Agostino. Conta l’heritage, ma anche la visione prospettica e la capacità di essere responsabili verso il mercato e la società.
Fuori dalla vita pubblica, il suo tempo libero si divide tra sport, letture e il mare della Puglia. Che libri l’accompagnano di più in questo momento e quanto le sue passioni personali incidono nel modo in cui racconta e interpreta la realtà?
Le passioni fanno parte della vita di un essere umano e sono frutto di quello che siamo stati, di quello che siamo e di quello che vorremmo essere. La cultura, che cerco di rendere una dimensione pervasiva e totalizzante della mia esistenza, è universo di conoscenze conoscibili. E’ pratica di significazione della realtà. Include la saggistica, la narrativa, la musica, il cinema, il teatro, oltre che naturalmente la televisione di qualità e lo sport. Sono tutti elementi che forgiano la nostra personalità, danno una direzione di marcia al nostro cammino, strutturano chiavi interpretative in linea con la complessità del nostro tempo. Lo stesso vale per le nostre relazioni interpersonali. Non si vive da monadi come diceva Leibniz. Tanto più da monadi senza finestre.