Giappone: crolla il Pil, ma non è solo colpa del Covid-19

- di: Brian Green
 
Il secondo trimestre del 2020 ha segnato, per l'economia giapponese, un periodo a dir poco terribile, con un crollo del Prodotto interno loro calcolato nel 7,8 per cento. E il dato su base annua è ancora più eclatante, con un -27,8 (secondo i calcoli preliminari del governo di Tokyo) per cento che non è attribuibile solo alla crisi provocata dall'epidemia di Covid-19. Gli analisti, peraltro, guardano con preoccupazione ad una economia che sembra mostrare i segni di strategie aziendali (spesso semplici consuetudini elevate al rango di regole) non più in grado di affrontare le sfide della globalizzazione.

Di fronte a questo terremoto economico, il governo cerca di correre ai ripari, dandosi come obiettivo il sostegno all'occupazione con sussidi ed incentivando i consumi. Ma a fronte dell'ampiezza del fronte della crisi queste misure appaiono troppo leggere e, forse, anche intempestive. Il ministro della Rivitalizzazione economica, Yasutoshi Nishimura, facendo esercizio di un realismo forse tardivo, ha detto che l'economia giapponese, come quella di altri Paesi sviluppati, è in "gravi condizioni", assicurando, comunque, che il governo si adopererà al massimo per "mettere il Giappone sulla via della ripresa".

Ma, se la ricetta di Nishimura è sostanzialmente quella di "sostenere l'occupazione attraverso sussidi e consumi privati", i timori sul futuro dell'economia giapponese restano intatti.
A rendere ancora più preoccupante la situazione è che il calo del Prodotto interno lordo su base annua (-27,8) è ben maggiore rispetto alle stime originarie, che parlavano di un ancorché gravissimo - 26,3%.

Uno scenario che il Paese non viveva sin dal 1955, il primo anno in cui il calcolo del Pil ha cominciato ad essere elaborato.
A mettere il Giappone davanti una realtà drammatica è anche il confronto con i due tradizionali antagonisti dell'area orientale, Cina e Corea del Sud, che hanno anch'essi subito una contrazione del Pil, ma in misura molto contenuta (rispettivamente -3,2 e -3,3 per cento).

Se tra le cause principali della crisi c'è il Covid-19, di certo la reazione del Governo alla pandemia qualche perplessità l'ha determinata. Il quadro complessivo (al 16 agosto; 56.214 casi e 1.103 morti) è conseguenza della dichiarazione dello "stato di emergenza", dal 16 al 25 aprile, e delle raccomandazioni/richieste di restare a casa e limitare i viaggi.
Ma ora, sotto accusa, non c'è solo l'approccio non deciso a strategie anti-contagio, ma anche pratiche aziendali che sono talmente radicate da avere reso quasi impossibile alzare un argine contro la pandemia negli ambienti di lavoro.

Il controllo rigido di ingressi ed uscite ha reso difficile il ricorso a pratiche di smart working, così come il fatto che per la redazione o la ufficializzazione della gran parte dei documenti aziendali è imposta la presenza fisica in azienda del dipendente.

Le aziende, pur rendendosi conto delle difficoltà che questa pratica determinava, piuttosto che aggirarla con qualche escamotage, hanno preferito che, ad esempio, le pratiche da firmare fossero recapitate a casa dei funzionari, ad opera di dipendenti ridottisi a fare la spola tra punti diversi delle megalopoli giapponesi. In più ci si sono messe le lungaggini legate alla concezione dei rapporti ufficiali, affidati al vecchio, caro, ma ormai desueto utilizzo del fax. Ma, quelli che rispondevano alle richieste dei ministeri in materia di informazioni sulla pandemia, ci hanno messo tre giorni per essere trasmessi.
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