Gaza, l’esodo senza fine: migliaia in fuga verso il nord tra attese, illusioni e macerie

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 

All’alba di lunedì, una fiumana di uomini, donne e bambini ha ripreso il cammino verso il nord di Gaza. Lo mostrano le immagini diffuse dalla CNN: una colonna di persone cariche di bagagli e speranze, avvolte nel silenzio interrotto solo dai passi che si trascinano tra le rovine di una terra ormai sfinita. Per giorni hanno dormito in strada, sulle spiagge, tra materassi, cisterne d’acqua e coperte polverose, aggrappandosi alla fragile promessa di un’apertura del valico, frutto di un accordo tra Israele e Hamas che appare sempre più precario, sempre più appeso a un filo.

Gaza, l’esodo senza fine: migliaia in fuga verso il nord tra attese, illusioni e macerie

Le parole di Fadi Al Sinwar, uno degli sfollati di Gaza City, risuonano come un monito: “Ci manca la nostra casa. Viviamo in tenda da 470 giorni.” Quasi un anno e mezzo trascorso in condizioni estreme, senza un tetto, senza certezze, con l’unica compagnia del vento e della polvere. Un destino condiviso da migliaia di palestinesi, vittime di una guerra che non concede tregue e che riduce le loro vite a un eterno presente fatto di stenti e di paura.

Un’attesa estenuante tra fame e disperazione

L’accordo per il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi, mediato da attori internazionali, aveva acceso una speranza, ma a Gaza ogni speranza è fragile. Ogni giorno di tregua è accompagnato dal timore che il suono delle bombe torni a scandire la quotidianità. Le famiglie hanno aspettato per giorni ai posti di blocco, stringendosi tra loro, accampate sotto teli improvvisati. I bambini si addormentano nei marciapiedi, le donne cercano di proteggere i pochi averi rimasti, gli uomini guardano l’orizzonte con lo sguardo vuoto, in attesa di un segnale che possa permettere loro di tornare a casa. Ma quale casa?

Gaza non è più una città, non è più neanche un campo profughi: è diventata un limbo senza tempo, un labirinto di rovine e macerie dove la speranza si consuma lentamente. La vita quotidiana è scandita dalla ricerca di cibo e acqua, da code interminabili per una razione di pane, dalla lotta contro un inverno che non concede tregua ai corpi già indeboliti dalla malnutrizione e dalle malattie.

“Viviamo con niente, ma almeno siamo vivi”, dice un altro sfollato, mentre stringe il figlio piccolo in braccio. Eppure, la vita a Gaza oggi è un concetto relativo: è sopravvivere, resistere, adattarsi a condizioni inumane in un mondo che sembra aver dimenticato questa striscia di terra assediata.

La fragilità della tregua e il futuro incerto

L’accordo raggiunto tra Israele e Hamas è una tregua armata più che un vero passo verso la pace. Si tratta di una pausa tattica, dettata dalla necessità di riorganizzarsi da entrambe le parti, mentre la popolazione civile si trova stretta in un gioco più grande di lei. Le trattative si susseguono febbrili, tra la richiesta di un ritorno alla normalità e la realtà di una guerra che non lascia spazio a illusioni.

Nel frattempo, l’UNRWA e le altre organizzazioni umanitarie cercano di portare aiuti, ma la distribuzione è complessa, ostacolata da una rete logistica al collasso e da un sistema di sicurezza imprevedibile. Gli aiuti che riescono ad arrivare sono gocce nell’oceano di bisogni della popolazione: farina, acqua, medicine, tutto è scarso e tutto viene razionato con estrema attenzione.

Il futuro? È un punto interrogativo, un’ombra che si allunga su un popolo stremato, costretto a vivere tra speranze infrante e partenze forzate. A Gaza, tornare a casa non è solo un desiderio, ma un incubo che si ripete: le case non ci sono più, le strade sono disseminate di detriti, il tessuto sociale è dilaniato da perdite e separazioni.

Un passato che non torna, un presente senza radici

Molti di coloro che tornano nel nord trovano solo rovine. Gaza City, una volta vivace e operosa, oggi è un cumulo di cemento e ferro contorto, una città fantasma che sembra uscita da un film post-apocalittico. Le famiglie che hanno lasciato le loro case mesi fa le ritrovano distrutte, saccheggiate, irriconoscibili. Non c’è acqua corrente, non c’è elettricità, non c’è sicurezza. Eppure, tornano.

Perché Gaza è casa loro, perché non conoscono altro. Tornano a un posto che li ha respinti e abbracciati allo stesso tempo, in un ciclo infinito di distruzione e ricostruzione che dura da decenni.

La resilienza di un popolo dimenticato

Eppure, in mezzo a tutto questo, i palestinesi di Gaza resistono. Resistono con una forza che stupisce il mondo, con una resilienza che sembra quasi sovrumana. Madri che continuano a cucinare con il poco che hanno, bambini che ancora riescono a giocare tra le macerie, anziani che raccontano storie di un tempo che non c’è più.

La vita continua, nonostante tutto. Anche mentre i convogli avanzano lentamente verso il nord, la vita cerca di imporsi sulla distruzione, come un seme che spunta tra le crepe del cemento.

Il destino di Gaza resta sospeso, ma una cosa è certa: la sua gente non smette di lottare. E finché ci sarà chi porterà avanti questa lotta silenziosa, Gaza continuerà a esistere, anche solo nei cuori di chi non ha mai smesso di chiamarla casa.

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