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Fed divisa, nuovi tagli ma meno margine per i mercati

- di: Bruno Coletta
 
Fed divisa, nuovi tagli ma meno margine per i mercati
Fed divisa, nuovi tagli ma meno margine per i mercati
Tassi ai minimi da tre anni, tre dissensi interni, la corsa al dopo Powell (foto) e il confronto con Bce e Cina.

Un quarto di punto in meno, ma un messaggio da “fine corsa”

La Federal Reserve ha abbassato ancora una volta il costo del denaro: il tasso sui federal funds scende di 25 punti base, in un intervallo compreso tra 3,50% e 3,75%, il livello più basso da tre anni. Si tratta del terzo taglio del 2025 e del sesto dall’inizio del ciclo di allentamento partito nel settembre 2024, quando la Fed aveva rotto gli indugi con un maxi-intervento da mezzo punto.

Fin qui, nulla di sorprendente per i mercati, che già prezzavano un taglio da un quarto di punto. La vera novità arriva dalle proiezioni aggiornate della banca centrale: per il 2026 il quadro ufficiale contempla una sola ulteriore riduzione di 25 punti base, un rallentamento drastico rispetto al ritmo di questi mesi. La Fed, in altre parole, sta dicendo che la fase dei tagli “generosi” è vicina alla conclusione e che il margine per “regali” aggiuntivi a mercati e debitori sarà molto più limitato.

Nel comunicato, il Fomc riconosce un’economia che cresce un po’ più del previsto ma con un mercato del lavoro in progressivo raffreddamento e un’inflazione che resta ostinatamente sopra il traguardo del 2%. Il sentiero che la Fed prova a imboccare è sempre lo stesso: evitare una recessione senza però perdere definitivamente il controllo sui prezzi.

Una Fed spaccata come non si vedeva dal 2019

A colpire, questa volta, non è solo la decisione, ma il voto. Il taglio è passato con nove voti favorevoli e tre contrari, il maggior numero di dissensi dal 2019. La spaccatura fotografa una Fed divisa tra chi teme il rallentamento dell’occupazione e chi resta ossessionato dall’inflazione.

Due presidenti regionali – il numero uno della Fed di Chicago Austan Goolsbee e quello di Kansas City Jeffrey Schmid – hanno votato per lasciare i tassi fermi, convinti che ulteriori tagli rischino di riaccendere i prezzi proprio mentre il lavoro degli ultimi due anni cominciava a dare frutti visibili. All’estremo opposto, il governatore Stephen Miran, nominato da Donald Trump, ha chiesto un intervento ancora più deciso: un taglio da 50 punti base, il doppio di quello approvato.

Lo scontro interno riflette due letture opposte del momento americano: per le “colombe” la priorità è mettere un cuscinetto sotto un mercato del lavoro che rallenta e sostenere famiglie e imprese alle prese con il caro-vita; per i “falchi” il rischio di allentare troppo in fretta è quello di cristallizzare un’inflazione al di sopra del 2% per anni, costringendo in futuro a un nuovo ciclo di rialzi traumatico.

Il dissenso di Miran non è un incidente isolato: già in passato il governatore si era fatto notare per proiezioni di tassi molto più basse rispetto alla media del board, perfettamente allineate ai desideri della Casa Bianca, che spinge per un rapido ritorno a una politica monetaria “neutrale” o addirittura espansiva.

Inflazione ostinata, crescita in accelerazione: il nuovo quadro macro

Le nuove stime della Fed raccontano un’economia meno fragile di quanto si temesse solo pochi mesi fa. Per il prossimo anno, la banca centrale vede il Pil Usa in aumento di circa il 2,3%, in miglioramento rispetto all’1,8% indicato a settembre. La crescita non esplode, ma resta sufficientemente robusta da giustificare un approccio prudente ai tagli.

Sul fronte dei prezzi, invece, il messaggio è più cupo: l’inflazione, pur in calo rispetto ai picchi del 2022–2023, è vista stazionare sopra il 2% per diversi anni. Una parte della pressione arriva dai dazi e dalle tensioni commerciali, che si stanno trasferendo sui prezzi al consumo e alla produzione. La Fed, nei documenti ufficiali, riconosce che l’incertezza sulle tariffe e sulla loro sostenibilità legale – mentre si attende il verdetto della Corte Suprema su alcune misure chiave – complica la lettura dello scenario.

A preoccupare è anche un’altra dinamica tutta politica: il tema dell’“affordability”, la percezione di un costo della vita fuori controllo, minimizzato da Donald Trump come una “esagerazione” costruita dai democratici ma registrato con chiarezza dagli ultimi sondaggi. Per molte famiglie americane i prezzi alimentari, gli affitti e i premi assicurativi restano su livelli che erodono potere d’acquisto, e l’eventuale mancato rinnovo in Congresso dei sussidi legati all’Obamacare rischia di aggravare il quadro sociale e politico.

Il dopo Powell agita i mercati: il rischio di una Fed politicizzata

Sullo sfondo del dibattito sui tassi c’è un’altra partita destinata a pesare sulla credibilità dell’istituzione: la scelta del prossimo presidente della Fed. Il mandato di Jerome Powell scade nel maggio 2026 e Donald Trump ha fatto capire di avere già una preferenza, senza però scoprire completamente le carte.

Secondo indiscrezioni di Washington, il presidente e il segretario al Tesoro Scott Bessent stanno conducendo un giro finale di colloqui per mettere a confronto il favorito Kevin Hassett, economista e consigliere storico di Trump, con altri candidati, tra cui l’ex governatore della Fed Kevin Warsh. Hassett è considerato in pole position, ma i mercati lo osservano con una certa diffidenza: il timore è che possa essere troppo allineato alla Casa Bianca e trasformare la Fed in uno strumento della politica economica presidenziale.

Non è un mistero che Trump abbia spesso attaccato Powell, arrivando a definirlo “sbagliato per il Paese” e a ipotizzare più volte un suo passo indietro. Per gli investitori, il rischio è che il processo di nomina del nuovo presidente si sovrapponga a un momento delicatissimo della politica monetaria, alimentando volatilità su dollaro, Treasury e Borse mondiali.

Cosa cambia per mutui, prestiti e mercati globali

Il taglio della Fed non si traduce automaticamente in un sollievo immediato per famiglie e imprese, ma gli effetti si faranno sentire nei prossimi mesi. I tassi più bassi:

  • tendono a ridurre il costo dei prestiti indicizzati, a partire da linee di credito aziendali e finanziamenti a breve termine;
  • possono, con un po’ di ritardo, spingere al ribasso anche i tassi fissi su mutui e bond corporate, se i mercati si convincono che la Fed resterà accomodante più a lungo;
  • alimentano la caccia al rendimento, sostenendo Borse, obbligazioni ad alto rischio e mercati emergenti.

Ma il messaggio di cautela sui tagli futuri limita l’euforia. La traiettoria indicata per il 2026, con un solo ritocco al ribasso, suggerisce che il costo del denaro resterà comunque su livelli storicamente non bassissimi. Per gli Stati, questo significa pagare interessi significativi sul debito; per le aziende, selettività maggiore da parte degli investitori; per le famiglie, condizioni di credito ancora non “espansive”.

Se a un certo punto la Corte Suprema dovesse bloccare o ridimensionare i dazi che oggi finanziano una parte del taglio delle tasse voluto da Trump, si aprirebbe inoltre un problema sui conti pubblici americani: meno entrate, più deficit e debito più oneroso da rifinanziare. In quello scenario, la Fed si troverebbe schiacciata tra le pressioni politiche per mantenere i tassi bassi e la necessità di rendere sostenibile un debito in aumento.

Bce: Lagarde dice che i tassi “vanno bene così”

Mentre a Washington la Fed taglia, a Francoforte il messaggio è l’opposto. La presidente della Bce Christine Lagarde, parlando a un evento organizzato dal Financial Times, ha spiegato che i tassi dell’Eurozona sono “in una buona posizione” e ha aperto alla possibilità di rivedere al rialzo le stime di crescita dell’area euro.

Secondo Lagarde, l’economia dell’Eurozona sta andando meglio delle attese di inizio anno: i prezzi si stanno muovendo in linea con il target del 2% e la crescita, pur modesta, procede a un ritmo compatibile con il potenziale. Da qui l’idea di non affrettare altre mosse: niente tagli in vista nell’immediato, ma neppure un ritorno ai rialzi a breve termine.

L’istituto di Francoforte, insomma, prova a occupare una posizione intermedia: più prudente della Fed sui tagli, ma pronta a ricalibrare le sue previsioni se i dati macro – produzione industriale, occupazione, consumi – dovessero continuare a sorprendere in positivo. Nel dibattito interno alla Bce, alcune voci – a partire dalla tedesca Isabel Schnabel – non escludono neppure l’ipotesi che, in caso di nuova fiammata inflazionistica, si debba considerare un ritorno ai rialzi.

A livello politico, Lagarde ha colto l’occasione per rilanciare il tema degli eurobond per la difesa, sostenendo che l’Europa non può sostenere gli impegni militari necessari solo con bilanci nazionali già sotto pressione.

Cina: la crescita rialza la testa, ma i nodi restano

Sul fronte asiatico arriva un altro tassello del puzzle globale. Il Fondo Monetario Internazionale ha rivisto al rialzo le previsioni di crescita per la Cina: il Pil è atteso in aumento di circa il 5% nel 2025 e del 4,5% nel 2026, con un miglioramento di alcuni decimi di punto rispetto all’aggiornamento di ottobre.

La revisione riflette due fattori principali:

  • le misure di stimolo varate da Pechino per sostenere investimenti, lavoro e consumi;
  • dazi sulle esportazioni cinesi più bassi del previsto dopo l’ultima tornata di negoziati, che hanno alleggerito parzialmente la pressione sulle imprese manifatturiere.

Questo non significa, avverte lo stesso Fmi, che tutti i problemi siano risolti. La resilienza dell’economia cinese è messa alla prova da squilibri strutturali che vanno dal settore immobiliare alle finanze locali, passando per l’invecchiamento della popolazione. Inoltre, le tensioni commerciali globali rendono meno praticabile la strategia di affidarsi all’export per sostenere la crescita: Pechino è chiamata a spingere di più su consumi interni, welfare e innovazione tecnologica.

Fed, Bce, Cina: tre messaggi diversi per un’unica economia globale

Se si guarda insieme a Washington, Francoforte e Pechino, il quadro che emerge è chiaro: la fase delle politiche ultra-espansive a costo zero è alle spalle, ma le grandi economie stanno scegliendo strade diverse per gestire il dopo-shock inflazionistico.

Negli Stati Uniti, la Fed prova a mischiare prudenza e sostegno: taglia ancora, ma prepara i mercati all’idea che nel 2026 ci sarà spazio al massimo per un’altra limatura. In Europa, la Bce difende l’attuale livello dei tassi e si concentra sul consolidamento di una crescita fragile, con un occhio alle tensioni geopolitiche e ai bilanci pubblici. In Cina, il governo combina stimoli fiscali selettivi e una linea monetaria meno aggressiva, nel tentativo di evitare sia una frenata improvvisa sia un’esplosione del debito.

Per gli investitori globali questa combinazione significa una cosa: maggiore volatilità e divergenza. I flussi di capitale si muoveranno sempre più in funzione delle differenze tra le traiettorie di Fed, Bce e Cina; le valute ne risentiranno e le Borse saranno chiamate a digerire un contesto in cui i tassi non torneranno, per ora, ai livelli ultra-bassi della fase post-crisi.

Cosa guardare adesso: lavoro, tariffe, politica

Da qui ai prossimi mesi, tre variabili decideranno se la Fed potrà permettersi ulteriori gesti di generosità o se dovrà frenare bruscamente:

  • Il mercato del lavoro: se il rallentamento dell’occupazione si trasformasse in una vera e propria ondata di licenziamenti, le colombe guadagnerebbero ulteriore peso nel Fomc, spingendo per nuovi tagli anche oltre il 2026.
  • Le tariffe e la Corte Suprema: una sentenza che smontasse una parte dei dazi aprirebbe un buco nei conti federali, con il rischio di scontri violenti sul tetto del debito e nuove turbolenze sui Treasury.
  • La politica interna Usa: la campagna permanente di Trump sulla Fed, il tema “affordability” e la battaglia su sanità e sussidi renderanno ogni mossa della banca centrale politicamente sensibile, soprattutto mentre si avvicina la scelta del successore di Powell.

Per ora, il messaggio che arriva da Washington è netto: i tassi scendono ancora, ma più lentamente. La Fed vuole tenersi uno spazio di manovra in caso di shock, ma non ha intenzione di riscrivere da capo la storia degli ultimi due anni, fatti di rialzi dolorosi per riportare l’inflazione verso il 2%. Tra colombe e falchi, la linea che prevale è quella del funambolo: pochi passi alla volta, senza guardare troppo in basso.

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