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Fallimenti in Usa +14% a causa dei dazi e del caro-denaro nel 2025

- di: Vittorio Massi
 
Fallimenti in Usa +14% a causa dei dazi e del caro-denaro nel 2025
Fallimenti in Usa, l'onda lunga di dazi e caro-denaro nel 2025
Tra tariffe “a fisarmonica”, credito più duro e consumi nervosi, la bancarotta torna a farsi strada: non è un’epidemia unica, è una somma di febbri. 

C’è un numero che fa rumore perché sembra uscito da un’altra epoca: 7.171 imprese che, nei primi 11 mesi del 2025, hanno avviato una procedura di fallimento negli Stati Uniti, +14% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Un livello che riporta la memoria al post-Grande recessione, quando nel 2010 la crisi finanziaria ancora mordeva.

E poi c’è un altro numero, più piccolo ma altrettanto rivelatore: 717 fallimenti di aziende “di dimensione rilevante” (grandi società pubbliche e private monitorate da società di intelligence finanziaria) sempre fino a novembre. In pratica: la pressione è diffusa, ma si vede chiaramente anche “in alto”, tra i nomi che contano.

Il filo che collega le storie è sempre lo stesso, ma con tre nodi stretti: inflazione, tassi d’interesse e dazi. A complicare tutto, un’idea semplice e crudele: se i costi ballano e la domanda rallenta, le aziende fragili perdono l’equilibrio per prime.

Perché i fallimenti aumentano: la “tempesta perfetta” in tre atti

1) Inflazione: quando il prezzo non è più un dettaglio

Anche quando l’inflazione si raffredda, lascia dietro di sé un terreno diverso: listini più alti, clienti più prudenti, margini più sottili. Nei settori che vivono di volumi (retail, logistica, produzione), basta un piccolo calo della domanda per trasformare un trimestre “così così” in un problema di cassa.

2) Tassi alti: il debito torna a presentare il conto

Il denaro facile ha fatto da stampella per anni. Poi è arrivata la normalità (o qualcosa che le somiglia): rifinanziare costa, rinegoziare è più difficile, e la pazienza dei creditori è più corta. Le statistiche del sistema giudiziario federale indicano che le procedure complessive di bancarotta (persone e imprese) sono tornate a crescere in modo sensibile tra 2024 e 2025, segnale di un contesto creditizio più duro.

3) Dazi: la catena di fornitura come campo minato

Il capitolo più “politico” è anche quello più operativo: tariffe più elevate e spesso variabili significano costi di importazione imprevedibili, scorte da ripianificare, contratti da rivedere. Il punto non è solo pagare di più, ma non sapere quanto pagherai il mese prossimo: un incubo per chi produce, trasporta o vende componenti.

Il nervo scoperto lo riassume così un osservatore del mondo accademico americano, ragionando su consumi e prezzi: Le aziende vedono in faccia la crisi di accessibilità che colpisce l’americano medio: provano ad assorbire tassi e dazi, ma fino a un certo punto. Chi può alza i prezzi, gli altri rischiano di chiudere.

I settori più colpiti: non è più una crisi “a compartimenti stagni”

Una delle novità del 2025 è la mappa delle cadute: i fallimenti non si concentrano in un solo settore, ma si distribuiscono. L’analisi basata sui dati delle grandi società mostra un picco tra gli industriali (manifattura, costruzioni, trasporti), seguiti dal mondo consumer (retail e beni discrezionali) e poi dalla sanità.

  • Industria e trasporti: più esposti a input importati, componentistica e tariffe.
  • Retail e consumi discrezionali: clienti più selettivi, carrello “accorciato”, promozioni che erodono margini.
  • Healthcare: costi operativi elevati e rimborsi/contratti spesso rigidi, quindi meno elasticità quando il credito si stringe.

Le “mega bancarotte”: quando cade un gigante, tremeranno anche i fornitori

Il 2025 non racconta solo piccole aziende in affanno. Nella prima metà dell’anno è aumentato anche il numero delle cosiddette “mega bancarotte” (società con oltre un miliardo di dollari di asset), un termometro che segnala stress nei bilanci più strutturati.

Il motivo è spesso lo stesso, ma in scala: debito + costi finanziari + domanda in frenata. Quando la ristrutturazione diventa inevitabile, il Chapter 11 può essere usato come “cantiere” per riorganizzare attività, contratti e passività senza spegnere subito l’insegna.

Casi simbolo: dall’hi-tech domestico al retail dell’arredo

Dietro le statistiche, ci sono storie con nomi e cognomi. E alcune sono perfette per capire l’aria che tira:

iRobot: la ristrutturazione arriva anche al “robot di casa”

Il produttore dei celebri Roomba ha avviato una procedura di Chapter 11 con l’obiettivo di trovare una soluzione industriale e finanziaria, segnale che anche aziende note al grande pubblico possono finire schiacciate tra mercato competitivo e condizioni di credito più rigide.

American Signature: mobili, case e consumi che cambiano pelle

Nel retail dell’arredo, la combinazione tra domanda più debole, costi e pressione competitiva ha portato a nuove procedure. In un caso seguito da cronaca giudiziaria e finanziaria, una catena ha dichiarato un forte calo delle vendite e l’aumento dei costi, citando tra i fattori anche l’impatto di inflazione e tariffe.

Che cosa dice il dato “7.171”: un chiarimento necessario

Il numero 7.171 viene riportato come conteggio di imprese che hanno avviato procedure di fallimento nei primi 11 mesi dell’anno: una fotografia ampia, che tende a includere più tipologie e dimensioni di attività. Il dato 717, invece, riguarda un perimetro più selettivo di aziende “rilevanti” monitorate da database finanziari.

Tradotto: non si contraddicono, raccontano due livelli diversi della stessa storia. Se aumenta la pressione sulle grandi, è facile immaginare quanto sia scivoloso il terreno per chi ha meno margine, meno accesso al credito e meno potere contrattuale.

Il punto politico-economico: i dazi come variabile “nervosa”

I dazi non agiscono come una tassa semplice: creano incertezza. Se una tariffa cambia o viene minacciata, l’azienda deve scegliere tra scorte (che immobilizzano liquidità), prezzi (che rischiano di deprimere la domanda) o assorbimento dei costi (che erode i margini). In settori come trasporti, manifattura e import, questa incertezza vale più di un punto di margine: vale la sopravvivenza.

Cosa aspettarsi nel 2026: meno “boom”, più selezione

Se i tassi resteranno relativamente alti e le tariffe continueranno a muoversi, il 2026 potrebbe non essere l’anno della tregua, ma quello della selezione: sopravvivono meglio le aziende con cassa, potere di prezzo, filiere diversificate e debito sostenibile.

Il paradosso è che molte bancarotte non sono la fine, ma una trasformazione: ristrutturazioni, vendite di asset, tagli di rete, ripartenze con un perimetro più piccolo. Ma per lavoratori, fornitori e comunità locali, ogni procedura è comunque un terremoto con scosse che si sentono ben oltre il tribunale.

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