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Ex Ilva, il giorno delle offerte: Bedrock e Flacks alla prova

- di: Vittorio Massi
 
Ex Ilva, il giorno delle offerte: Bedrock e Flacks alla prova
Ex Ilva, il giorno delle offerte: Bedrock e Flacks alla prova
Oggi la partita decisiva su Taranto tra fondi americani, governo e territorio.

Per l’ex Ilva di Taranto oggi è il giorno delle offerte vincolanti. I commissari dell’amministrazione straordinaria attendono i piani industriali e le proposte economiche dei soggetti che hanno formalizzato il loro interesse: da una parte il fondo statunitense Bedrock Industries, dall’altra il tandem Flacks Group–Steel Business Europe. Sullo sfondo, un sito industriale strategico per la siderurgia italiana ma in condizioni critiche, una città che chiede lavoro e salute, e un governo chiamato a decidere quanto e come impegnare lo Stato nella transizione verso l’acciaio “verde”.

Oggi le offerte vincolanti: chi sono i pretendenti

I commissari hanno fissato per oggi la scadenza entro cui i due soggetti rimasti in corsa devono trasformare le manifestazioni d’interesse in offerte vincolanti con un piano industriale dettagliato. Si tratta di un passaggio chiave di una procedura iniziata a settembre, quando alla chiusura del bando erano arrivate dieci offerte: solo due, però, riguardavano l’intero perimetro industriale, proprio quelle di Bedrock e della cordata Flacks Group–Steel Business Europe, mentre diversi operatori italiani si erano detti interessati solo agli stabilimenti del Nord (Genova, Novi Ligure, Racconigi).

Bedrock Industries è un investitore specializzato in grandi complessi siderurgici in crisi: nel suo portafoglio c’è, tra le altre, la canadese Stelco, rilevata dopo la bancarotta e rilanciata attraverso una pesante ristrutturazione. L’approccio è tipicamente finanziario ma con una forte componente industriale: rilevare impianti in difficoltà, ripulire i conti, rimettere in funzione gli stabilimenti e valorizzarli nel medio periodo.

Flacks Group, a sua volta statunitense, si presenta invece in cordata con Steel Business Europe, società slovacca del settore. Il fondo ha già effettuato sopralluoghi a Taranto con una propria delegazione tecnica, segno di un interesse concreto a entrare nel capitale e nella gestione del sito. L’alleanza con un operatore europeo dell’acciaio è letta come il tentativo di dare al progetto una veste più industriale e meno puramente finanziaria.

Finora restano fuori dai giochi i grandi gruppi siderurgici europei e asiatici che in passato erano stati accostati al dossier. In più occasioni, infatti, il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso ha ricordato che “tutto può fare tranne turbare il mercato”, evitando di confermare o smentire l’esistenza di una “cordata italiana” pronta a farsi avanti in una fase successiva, magari affiancata da una robusta partecipazione pubblica.

Perdite pesanti e impianti al minimo: un gigante in rosso

Se oggi è il giorno delle offerte, i numeri dicono però che l’ex Ilva è un gigante industriale in profonda sofferenza. In audizione al Senato, il presidente di Federacciai Antonio Gozzi ha definito la situazione “drammatica”, stimando perdite comprese tra 80 e 100 milioni di euro al mese per il gruppo siderurgico. Secondo Gozzi, il fatto che a presentarsi per l’intero perimetro siano stati solo fondi d’investimento e non operatori industriali è un segnale preciso: per il mercato, oggi, lo stabilimento di Taranto è percepito come “inagibile” dal punto di vista economico e industriale, complici anche gli impianti posti da anni sotto sequestro e un carico giudiziario ancora pesante.

A fotografare il fronte sociale è il commissario straordinario Giancarlo Quaranta, che davanti alla Commissione Industria del Senato ha confermato che 4.450 lavoratori resteranno in cassa integrazione, mentre altri 701 saranno impegnati in percorsi di formazione. Il resto degli addetti sarà distribuito fra le attività di gestione della produzione nei diversi stabilimenti del gruppo. Una conferma di come lo stabilimento lavori ben al di sotto delle sue potenzialità, dopo anni di fermate, manutenzioni rinviate e un progressivo ridimensionamento degli impianti effettivamente in marcia.

Quaranta ha ricordato anche la necessità di riscrivere più volte il bando di vendita nel giro di pochi mesi: inizialmente il piano industriale contemplava la possibilità di produrre fino a 8 milioni di tonnellate di acciaio l’anno; con l’evoluzione del quadro normativo e dell’Autorizzazione integrata ambientale (AIA), la soglia è stata rivista a 6 milioni di tonnellate e si è introdotto il criterio della “totale decarbonizzazione” richiesto dalle istituzioni locali. Un cambio di paradigma che pesa sulle scelte degli investitori e, inevitabilmente, sui tempi di rilancio.

Il decreto del 1° dicembre e il passaggio in Senato

Il governo ha provato a costruire una cornice normativa con il decreto legge del 1° dicembre 2025, pensato per garantire la continuità produttiva degli stabilimenti ex Ilva e sostenere l’amministrazione straordinaria in questa fase di transizione. Il testo, ora all’esame della Commissione Industria del Senato, prevede la possibilità di utilizzare le risorse residue del finanziamento ponte e introduce strumenti per sostenere gli investimenti necessari, in particolare la riattivazione del secondo altoforno e la manutenzione del quarto.

Oggi lo stesso ministro Urso è atteso in Commissione per una nuova audizione: un passaggio politicamente delicato, perché l’esame parlamentare del decreto si intreccia con la scadenza delle offerte vincolanti. Il rischio, evidenziato da più parti, è che il quadro normativo venga percepito dagli investitori come instabile o insufficiente a garantire le condizioni di lungo periodo necessarie a impegnare miliardi su Taranto.

Sindacati e parte dell’opposizione parlano apertamente di un “decreto bluff”, giudicando le misure previste troppo deboli per invertire la rotta: si consente a Acciaierie d’Italia di resistere qualche mese in più, ma senza quella partecipazione pubblica diretta che molti attori del territorio considerano indispensabile per affrontare il nodo della decarbonizzazione e delle bonifiche ambientali.

Tre forni elettrici e quattro DRI: il piano del territorio

Mentre a Roma si discute il decreto, a Taranto sindacati e istituzioni locali hanno provato a costruire un fronte comune. Nel Consiglio di fabbrica unitario – con Fim, Fiom, Uilm, Usb, Comune, Provincia e Regione – è stata approvata una piattaforma che chiede con forza una svolta tecnologica e ambientale:

  • tre forni elettrici a Taranto nel minor tempo possibile;
  • un quarto forno elettrico a Genova, per garantire continuità al sito ligure;
  • quattro impianti DRI (Direct Reduced Iron) per la produzione di preridotto di ferro a basse emissioni, da integrare nella filiera dell’acciaio “verde”;
  • la riattivazione delle linee di finitura, fondamentali per dare valore aggiunto ai prodotti;
  • una clausola sociale vincolante per proteggere l’occupazione nell’indotto e garantire la ricollocazione degli addetti degli appalti.

L’obiettivo è chiaro: trasformare Taranto in un grande hub dell’acciaio decarbonizzato, agganciando le risorse europee e nazionali destinate alla transizione energetica. I forni elettrici ad arco, alimentati da rottame e – in prospettiva – da energia rinnovabile o nucleare, sono visti come la via maestra per ridurre drasticamente le emissioni di CO2, affiancandosi gradualmente e poi sostituendo gli altoforni a carbone. In questo schema, gli impianti DRI dovrebbero fornire preridotto di ferro prodotto con gas naturale e, progressivamente, con idrogeno, rendendo possibile una produzione di acciaio a emissioni sempre più basse.

La visione, però, ha un costo enorme: si parla di investimenti nell’ordine di 7–8 miliardi di euro tra nuovi forni, DRI, interventi ambientali e adeguamento delle infrastrutture energetiche. Una cifra che nessuno degli attori in campo sembra disposto a mettere sul piatto da solo. Da qui la richiesta insistita di un ruolo forte dello Stato, sia come garante dei finanziamenti sia come possibile azionista, almeno nella fase di transizione.

“Taranto vuole lavoro, non cassa integrazione”: la politica locale si divide

Il presidente uscente della Regione Puglia, Michele Emiliano, ha chiesto esplicitamente a Palazzo Chigi di assumere la regia politica dell’operazione, invocando una “garanzia pubblica sulla gestione del piano”. Senza un impegno diretto dello Stato, secondo il governatore, sarebbe difficilmente credibile promettere a Taranto un futuro industriale decarbonizzato dopo anni di incertezze, piani rimasti sulla carta e continui cambi di proprietà.

Il sindaco di Taranto Piero Bitetti ha sintetizzato così l’umore della città: “Taranto vuole lavoro, non cassa integrazione”. Tradotto: la pazienza degli oltre quattromila lavoratori sospesi è al limite, e ogni ulteriore rinvio rischia di trasformare la vertenza in una nuova stagione di tensione sociale, con ricadute pesanti anche sull’indotto e sull’economia della provincia.

Neppure nel campo progressista, tuttavia, regna l’unità. Il consigliere comunale del Partito democratico Luca Contrario ha bollato il documento unitario come una “letterina di Babbo Natale”, chiedendo di chiarire una domanda molto semplice: chi metterà i famosi 7–8 miliardi necessari per forni elettrici, DRI e riconversione ambientale? Una critica che riflette il timore che, senza coperture chiare e tempi definiti, il piano possa alimentare aspettative impossibili da soddisfare.

Il nodo giudiziario e l’AIA: una fabbrica sotto osservazione

Sul destino dell’ex Ilva pesa ancora il doppio macigno dei procedimenti giudiziari e delle autorizzazioni ambientali. Gli impianti di Taranto restano in larga parte sotto sequestro da anni, con prescrizioni e vincoli che complicano qualsiasi piano di investimento. Proprio il tema dell’AIA – l’Autorizzazione integrata ambientale – è stato uno snodo cruciale: nel 2025 il governo ha rivendicato il via libera a un nuovo assetto autorizzativo per la produzione di acciaio a Taranto, presentandolo come una tappa fondamentale per “salvare lo stabilimento e la siderurgia italiana”.

Per le associazioni ambientaliste e una parte della cittadinanza organizzata, però, resta aperta la questione del rapporto tra produzione, salute e qualità della vita. Nel quartiere Tamburi e nelle aree più esposte alle emissioni, comitati e movimenti continuano a denunciare gli effetti delle polveri e degli inquinanti, chiedendo che qualsiasi piano industriale metta davvero al centro la riduzione delle emissioni e le bonifiche, e non solo la continuità produttiva.

Lo Stato arbitro o giocatore? Il banco di prova per Meloni

Nel documento unitario di sindacati e istituzioni locali c’è un appello diretto alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, invitata ad assumere la guida politica di un negoziato che non può essere lasciato ai soli commissari o alle dinamiche di mercato. L’idea è che, in un settore strategico come l’acciaio e in un sito sensibile come Taranto, il “lasciar fare” ai fondi d’investimento non basti: serve una cabina di regia che tenga insieme politica industriale, salute pubblica, diplomazia con Bruxelles sui dossier ambientali e concorrenza.

Il governo, dal canto suo, insiste nel definire il decreto del 1° dicembre come un “piano di rilancio produttivo” più che come un semplice provvedimento tampone. Resta però irrisolta la domanda principale: quale sarà il vero perimetro dell’intervento pubblico nella nuova ex Ilva? Una garanzia sui finanziamenti? Una partecipazione diretta nel capitale attraverso Invitalia o altri strumenti? Un controllo pubblico temporaneo, in attesa di un nuovo partner industriale? Ogni opzione ha implicazioni diverse per i conti pubblici e per i rapporti con l’Unione europea sul terreno degli aiuti di Stato.

Cosa succede dopo oggi

Il calendario, intanto, corre veloce. Nelle prossime ore i commissari dovranno valutare le proposte di Bedrock e Flacks Group–Steel Business Europe, verificando non solo il valore economico delle offerte ma soprattutto la credibilità dei piani industriali: capacità produttiva, tempi e modalità della decarbonizzazione, garanzie occupazionali, impegni sugli investimenti in manutenzione, sicurezza e ambiente.

È possibile che, dopo una prima scrematura, si apra una fase di trattativa più serrata, anche alla luce degli emendamenti che Parlamento e governo apporteranno al decreto in conversione. Non è escluso che, strada facendo, possano affacciarsi altri soggetti, industriali o finanziari, interessati a singoli asset o a partnership con i due fondi in corsa. Ma la costante emersa da tutte le audizioni è una: senza una scelta chiara dello Stato, il rischio è che nessun progetto regga davvero la prova del tempo.

Per Taranto e per l’intera filiera dell’acciaio italiana, la giornata di oggi è un passaggio obbligato. Ma non basterà una buona offerta vincolante a risolvere una crisi che dura da oltre un decennio. Serviranno decisioni politiche nette, investimenti pesanti e, soprattutto, la capacità di tenere insieme industria, lavoro, ambiente e salute. È su questo equilibrio, più che sulle cifre delle offerte, che si giocherà il futuro dell’ex Ilva.

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