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Ergastolo definitivo a Turetta: “Riconosciuto il movente di genere”

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Ergastolo definitivo a Turetta: “Riconosciuto il movente di genere”

La Corte d’Assise d’Appello di Venezia ha messo il punto finale a una vicenda giudiziaria che il Paese ha seguito con fiato sospeso: gli appelli presentati dalla difesa e dal pubblico ministero contro la sentenza di primo grado sono stati dichiarati inammissibili, dopo la rinuncia delle parti.
Con un atto rapido, quasi chirurgico, l’ergastolo inflitto a Filippo Turetta diventa così definitivo, insieme alla conferma dell’aggravante della premeditazione per l’omicidio di Giulia Cecchettin.

Ergastolo definitivo a Turetta: “Riconosciuto il movente di genere”

Poche parole, ma pesantissime, sono arrivate subito dopo dal legale della famiglia Cecchettin.
«La Corte ha di fatto riconosciuto il movente di genere: questi uomini spesso uccidono perché vogliono punire la donna che non risponde più alle loro aspettative», ha dichiarato Nicodemo Gentile, avvocato di parte civile per Elena Cecchettin.

Una frase che non amplia gli atti giudiziari, ma ne illumina il senso profondo: quel “punire” è lo specchio di un modello culturale che continua a ritenere la libertà femminile una minaccia e non un diritto.

L’eco di un dolore collettivo
La conferma della condanna chiude il procedimento, non la ferita. Il caso Cecchettin ha attraversato l’Italia come un trauma condiviso: due giovani, una relazione che si incrina, la difficoltà di accettare la fine, fino alla spirale cieca che ha portato alla tragedia.
Una storia che molti hanno riconosciuto come la punta di un iceberg: dietro di essa, centinaia di relazioni malate, fatte di controllo, ossessione, aspettative sbagliate.

E quando la giustizia arriva, come oggi, è impossibile non sentire il sollievo amaro dei verdetti che non restituiscono la vita, ma almeno ne affermano il valore negato.

La dimensione pubblica di una battaglia privata

La figura di Elena Cecchettin è rimasta al centro di un percorso che da subito ha travalicato i confini privati del lutto. Non un simbolo imposto, ma un simbolo nato dalla sua stessa voce.
In nome di Giulia, la famiglia ha trasformato il dolore in denuncia, la denuncia in impegno civile, il silenzio in presenza costante.
È anche grazie a questa determinazione che oggi la parola “genere”, di solito prudente nei tribunali, esce con chiarezza nelle dichiarazioni pubbliche.

Giustizia e responsabilità: due piani che non coincidono
La sentenza definitiva stabilisce una colpa individuale. Ma ogni femminicidio porta con sé una responsabilità collettiva che nessun verdetto può esaurire.
Il “perché” che aleggia dietro la morte di Giulia non riguarda solo Turetta: riguarda un Paese nel quale troppi uomini vivono la libertà femminile come un affronto, troppi sì vengono pretesi e troppi no vengono puniti, simbolicamente o – come in questo caso – tragicamente.

Cosa resta dopo l’ultimo grado
Resta una verità giudiziaria chiara.
Resta una padre che chiede che il nome di sua figlia non sia la riga di un fascicolo, ma il punto di partenza per cambiare lo sguardo.
Resta un’Italia che si scopre fragile, ma anche capace di indignarsi.

E resta un messaggio che la sentenza di oggi inchioda davanti a tutti: il femminicidio non è una deriva sentimentale, non è un raptus, non è perdita di controllo. È una punizione, quando una donna sceglie se stessa.

La memoria che continua
Da oggi l’aspetto giudiziario è chiuso. Tutto il resto no.
La storia di Giulia continuerà a vivere nei dibattiti, nelle scuole, nelle piazze, ma soprattutto nelle vite delle ragazze che imparano a nominare la violenza prima che essa si manifesti.
La memoria, se ascoltata davvero, può diventare un argine.
E forse questa è l’unica giustizia che, fuori dai tribunali, possiamo provare a costruire.

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