Qual è il vero stato di salute dell'Eni?

- di: Redazione
 
Quali sono le condizioni reali in cui si trova l'Eni, al di là delle dichiarazioni sempre improntate all'ottimismo che arrivano, a getto continuo, dai suoi vertici?
Ma è forse una domanda formulata in modo non corretto, perché l'interrogativo da porsi (come italiani) e da porre (all'Eni) è se il gigante energetico - guidato dal 2014 da Claudio Descalzi - sia ancora tale, ma soprattutto se meriti tutta la considerazione e tutta l'accondiscendenza che le sono state accreditate negli ultimi - tanti ormai - anni dai padroni (politici) del vapore.

Da sempre l'Eni vanta una solidità ammirevole, soprattutto se si guarda ai suoi progetti ed alle prospettive che ad essi vengono collegati, perché confermano l'italico pregio di sapersi barcamenare nei mari più agitati e perigliosi come sono quelli dei mercati energetici, ben più volatili di quel che si possa pensare, condizionati come sono dall'up and down dei prezzi del petrolio.
Ma i risultati economici di Eni - ''conti disastrosi nel primo trimestre'', dicono gli analisti - sono davanti agli occhi di tutti e non si comprende come, ancora, il Governo non abbia deciso di mettere mani in quello che non è più la piscina d'un tempo, piena d'acqua d'Evian e tutta luccichii, ma un spartano truogolo di campagna.

Nel primo trimestre appena citato, il calo registrato è stato del 40 per cento, con un risultato in sofferenza per 655 milioni di euro, quando, nel 2019, era stato di +1,55 miliardi.
Certo, hanno detto all'Eni, ma ci sono stati la pandemia ed il crollo degli introiti causati dal perdurare della fase discendente dei prezzi del petrolio. Un male comune (il calo del prezzo del barile) anche ad altri giganti del settore, ma che in Eni sembra essere stato preso come parte di un problema, e non come ''il problema''.

Di una salute dell'ente energetico un po' meno buona di quello che ci si affanna a fare credere ci sono da tempo segnali, più o meno piccoli.
Uno, ad esempio, è l'annunciato ricorso al Recovery Plan, al quale, ha detto lo stesso Amministratore delegato Claudio Descalzi, l'Eni vuole accedere grazie ad una serie di progetti per i quali ottenere la bellezza di sei miliardi e mezzo di euro, sul piano industriale 2030-2050.

Premettendo che altre grandi imprese - alcune in salute - hanno fatto ricorso al Recovery Plan, il fatto che a questo strumento voglia fare ricorso un ente che ha macinato, per anni, profitti altissimi induce a pensare che ci si trovi davanti ad una furbata (operazione conveniente, quindi: perché no?) oppure ad un sintomo che quello che c'è in pancia all'Eni non sia tutto buono.
Descalzi, che ha scelto la presentazione di Green&Blue del gruppo Gedi per rivelare le strategie del gruppo, ha detto, riferendosi al Recovery Plan, che si tratta di un un ''piano straordinario'', che si tradurrà in un risparmio annuo di 6,5 milioni di tonnellate di Co2 e decine di migliaia di nuovi posti di lavoro (tra 70 e 100 mila).

''È un’opportunità incredibile anche per creare un processo irreversibile dal punto di vista industriale”, ha spiegato alla platea. Tutto bello, tutto interessante, tutto - come si dice ora - di prospettiva.
Ma resta da capire, se l'Eni vuole attingere ai fondi del Recovery Plan per 6,5 miliardi di euro, a quanto realmente ammontano i costi del progetto? Perché sembra quantomeno singolare che un progetto, quale che ne sia l'ampiezza e le esigenze finanziarie, espressione di un gigante come l'Eni, possa nascere solo fidando su risorse che vengono dall'Europa. Se così fosse, sarebbe una sconfessione del concetto del rischio di impresa, che l'Eni non vuole assolutamente assumersi, lasciando tutto il peso economico dell'operazione sulle spalle dell'Europa.
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Italia Informa n° 1 - Gennaio/Febbraio 2024
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