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Studiare in Umbria, lavorare altrove. Male la produttività

- di: Giuseppe Castellini
 
Studiare in Umbria, lavorare altrove. Male la produttività

Il Rapporto di Bankitalia accende i riflettori sulla fuga dei laureati: l’Università attrae, ma la regione non offre sbocchi. L’andamento della produttività nell’ultimo ventennio è il peggiore d’Italia.

(Foto: logo Bankitalia).
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Una regione che forma, ma non trattiene
L’Umbria è attrattiva, ma non riesce a tenere con sé chi forma. È questa la contraddizione più grave che emerge dal nuovo Rapporto sull’economia regionale della Banca d’Italia, presentato a Perugia dalla direttrice della sede umbra Miriam Sartini. Il documento, aggiornato al 29 maggio 2025, fotografa una regione capace di richiamare studenti da tutta Italia – l’Università di Perugia è al sesto posto nazionale per attrattività interregionale – ma strutturalmente incapace di offrire sbocchi adeguati ai suoi laureati. Il risultato? I giovani se ne vanno verso Nord o all’estero.
Una diaspora silenziosa che impoverisce il territorio, mentre altrove si raccoglie il frutto dell’investimento formativo. “Il sistema economico umbro mostra una crescente difficoltà nel trattenere i giovani laureati”, scrive la Banca d’Italia con linguaggio asettico ma inequivocabile. Il paradosso è che la percentuale di studenti umbri tra i 19 e i 25 anni iscritti all’università (43%) è superiore alla media nazionale (39,7%), ma oltre quattro quinti dei laureati umbri, specie quelli più qualificati, sono destinati a occupazioni ad alta esposizione all’intelligenza artificiale: opportunità che in Umbria non si trasformano in carriere.
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Produttività: la peggior dinamica d’Italia
Se la fuga dei cervelli è un sintomo, la malattia si chiama bassa produttività. Il Rapporto è netto: “Nel corso degli anni duemila l’Umbria ha registrato la diminuzione della produttività più marcata tra tutte le regioni italiane”: -6.7% l’Umbria, +4% la media nazionale. Mentre il resto del Paese, seppure a rilento, cresceva, l’Umbria perdeva terreno. Le ragioni sono note: un sistema imprenditoriale poco innovativo, debole digitalizzazione, bassa spesa in ricerca e sviluppo e scarsa propensione brevettuale. A questo si somma un utilizzo insufficiente degli incentivi statali: solo un’azienda su dieci ha sfruttato il programma Transizione 5.0. Troppo complicato, troppo oneroso anticipare i costi.
La regione, insomma, è rimasta indietro. La capacità di trasformare capitale umano in valore economico – vera chiave dello sviluppo contemporaneo – si è inceppata. E senza un salto di qualità nella produttività, anche i segnali positivi rischiano di non fare sistema.
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Pil in crescita, ma solo grazie al PNRR
Nel 2024 il Pil umbro è cresciuto dello 0,7%, in linea con la media italiana. Un dato che però non entusiasma: a trainare sono stati esclusivamente gli investimenti pubblici legati al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. I privati sono rimasti fermi, frenati dall’incertezza e dal basso utilizzo della capacità produttiva (solo al 73,2%). Le imprese umbre, nonostante una liquidità storicamente elevata, non investono. Preferiscono cautela e immobilismo, con effetti a catena su tutta l’economia.
Anche i consumi delle famiglie crescono poco, nonostante l’aumento del potere d’acquisto grazie alla discesa dell’inflazione. Il mercato immobiliare resta fiacco, le compravendite stagnano e i prezzi degli immobili restano al di sotto del livello pre-pandemico.
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Occupazione in crescita, ma resta il divario qualitativo
Il mercato del lavoro umbro nel 2024 ha segnato risultati positivi: +3,2% di occupati (meglio della media nazionale), calo della disoccupazione e aumento del tasso di attività. Ma, anche qui, la sostanza è meno rosea della forma. Il saldo delle assunzioni nette si è ridotto di un terzo rispetto al 2023, e i contratti a tempo determinato sono praticamente scomparsi. I nuovi occupati si concentrano nelle fasce d’età più mature o in lavori a bassa qualificazione. Le imprese piccole assumono meno, quelle grandi reggono, ma non compensano.
Il problema vero è che la qualità dell’occupazione non cresce. I giovani laureati trovano poco spazio, e se lo trovano è spesso precario o sottopagato. Chi può, parte.
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Università eccellente, ma scollegata dal territorio
L’Università di Perugia gode di buona reputazione: attira studenti da Lazio, Abruzzo, Marche e Campania. I corsi sono valutati positivamente e l’infrastruttura accademica ha retto bene la transizione digitale e l’integrazione con la ricerca. Ma la disconnessione tra formazione e mondo produttivo è evidente. I percorsi di studio non si traducono in sbocchi locali. Il tasso di occupazione tra i laureati resta buono, ma solo fuori dall’Umbria. È come se il sistema formativo fosse stato “esternalizzato” dal contesto economico regionale.
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La trappola dell’immobilismo
Tutto questo racconta un’inerzia strutturale che nessuna fiammata congiunturale riesce a spezzare. L’Umbria è bloccata in una doppia morsa: imprese che non innovano e capitale umano che non resta. L’esito è la perdita di slancio competitivo, l’erosione lenta ma costante del tessuto produttivo, e una crescente marginalità nel panorama nazionale.
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Il tempo è scaduto
Il Rapporto della Banca d’Italia non lascia spazio a illusioni: senza una svolta netta, l’Umbria resterà un luogo in cui si studia bene, ma si lavora altrove. È tempo di agire. Serve un patto regionale per trattenere i talenti, rafforzare le imprese, semplificare l’accesso agli incentivi e orientare l’innovazione. Non bastano i fondi del PNRR se mancano visione e volontà politica. La generazione formata in Umbria è già pronta. Ora tocca all’Umbria essere pronta per loro.


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