La nostra biblioteca: una grande scrittrice dietro le storie che hanno fatto del West una leggenda

- di: Diego Minuti
 
Solo chi ne sa tanto della letteratura del West selvaggio o idolatra tanto il genere da andarsi a leggere con attenzione i titoli di coda dei film (persino le parti che passano velocemente davanti agli occhi, scritte a caratteri microscopici) conosce il nome, la storia personale e gli scritti di Dorothy M. Johnson.
Eppure si devono alla sua bravura, colpevolmente misconosciuta dai più da questo lato dell'oceano, i testi che hanno consentito alla cinematografia americana di regalare film, che sono stati capolavori (''L'uomo che uccise Liberty Valance''), innovativi (''Un uomo chiamato cavallo"), interessanti (''L'albero degli impiccati'') e che hanno avuto come interpreti attori quali John Wayne, James Stewart, Richard Harris, Gary Cooper.

La nostra biblioteca: una grande scrittrice dietro le storie che hanno fatto del West una leggenda

Dorothy M.Johnson aveva la innata capacità di raccontare il West passando per i drammi personali, non attraverso le storie ''grandi e selvagge'', senza quindi ricorrere agli stereotipi della frontiera e affidandosi a personaggi che, anche negli Stati Uniti di quell'epoca, potevano incarnare l'uomo qualunque, che finisce in situazioni più grandi di lui e nelle quali deve, prima d'ogni altra cosa, trovare sé stesso e, con sé stesso, la verità o la redenzione, sempre che le cerchi.

Ma noi, italiani, siamo in buona compagnia perché, quando Dorothy M. Johnson morì, il 13 novembre del 1984, anche i grandi quotidiani americani le dedicarono giusto il necessario, ricordandone la produzione, la data di nascita (nel 1905, nell'Iowa), che si trasferì bambina nel Montana, un breve elenco delle opere, definendola una scrittrice del West.
Dimenticandone, forse per superficialità, l'importanza che ebbe nel descrivere un'epopea senza dividere i buoni (bianchi) dai cattivi (i nativi), ma solo tra il Bene e il Male, quale che fossero gli abiti che indossavano e le facce che mostravano, ma anche il Tempo che diventa, per i protagonisti, qualcosa con cui fare i conti non in termini di anni che passano, ma di esperienze che tornano a farsi sentire e, spesso, a pesare come null'altro mai.

A colmare il vuoto di conoscenza, in Italia, della scrittrice, è giunta da pochi giorni in libreria una raccolta dei tre più conosciuti racconti dell'autrice, con il titolo di quello più conosciuto e ''riconoscibile'', ''L'uomo che uccise Liberty Valance''( Mattioli 1885 - pag.192 - 17 euro) , e che contiene anche i testi di ''Un uomo chiamato cavallo'' e ''L'albero degli impiccati'' (ma non solo, come diremo più avanti).
Una trilogia in cui il West è un comprimario, perché il cuore del racconto sono le pulsioni di persone che, sebbene apparentemente lontane, in fondo vivono lo stesso problema, quello dell'identità.
Ramsome Foster, senatore, che decide di rivelare dopo trent'anni di non essere lui l'autore del gesto che lo ha eletto a eroe; John Morgan, inglese e gentiluomo, a caccia di emozioni nel West, finisce schiavo di una tribù di Crow dalla quale vuole essere accettato, abbracciandone la cultura; Joe Frail, un medico assediato dai suoi ricordi, rimane aggrappato alla sua umanità.
Tre protagonisti al maschile, ma che si muovono in una realtà totale, dove tutti, alla fine, devono rendere conto di quel che hanno fatto.

Così Foster ammette di avere vissuto una vita di onore e gloria per un gesto eroico che non ha compiuto; Morgan, tornato alla ''civiltà'', si accorge che i valori che ne hanno accompagnato la formazione in Inghilterra non sono così universali per come gli sono stati proposti; Joe Frail si rende conto che i suoi sforzi di dimenticare il passato sono stati inutili, vani, non sufficienti a sanare i sensi di colpi.
Il libro propone anche un altro racconto, ''Una sorella scomparsa'', che racconta il rientro a casa di Bessie, una donna che, per molti anni, ha vissuto con gli indiani che l'avevano rapita, cancellando i suoi ricordi per farsene di nuovi, intimamente legati alla sua condizione di prigioniera.

Solo che l'involontario processo di rimozione è talmente forte che, quando torna a casa, è lei a sentirsi fuori posto e a guardare al suo recente passato quasi con mestizia e nostalgia.
Un tema - quello dei rapiti che tornano a casa - che un grande della regia della frontiera, come John Ford, ha trattato in ''Sentieri selvaggi'', in cui Debbie, dopo avere trascorso la sua infanzia e la giovinezza con gli indiani, viene riportata a casa dallo zio, un superbo John Wayne. Solo che Ford, cantore della tradizione americana, non poteva che fare di Debbie il simbolo della rinascita, cosa che Bessie non incarna affatto.
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Italia Informa n° 1 - Gennaio/Febbraio 2024
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