Il secondo round di negoziati tra Stati Uniti e Cina sui dazi si è aperto a Londra in un clima segnato più dall’osservazione cauta che da aspettative concrete. I rappresentanti dei due Paesi, impegnati in un confronto tecnico che potrebbe concludersi in poche ore, si muovono dentro un equilibrio instabile, in cui il nodo delle tariffe è solo la superficie di un conflitto ben più profondo.
Dazi Usa-Cina, la posta in gioco è l’ordine economico globale
Il commercio, in questo scenario, è diventato il campo visibile di una sfida tra modelli di potere, in cui ogni dazio, ogni sgravio, ogni apertura è carica di implicazioni strategiche. La questione centrale non è più se si arriverà a un’intesa, ma che tipo di mondo tale intesa contribuirebbe a definire.
Una guerra economica che rispecchia due visioni contrapposte
Gli Stati Uniti rivendicano l’uso dei dazi come strumento di riequilibrio nei confronti di una Cina che considerano aggressiva sul piano commerciale e manipolatrice sul fronte monetario. Pechino, dal canto suo, rigetta le accuse e si presenta come vittima di una politica protezionista mascherata da moralismo. In realtà, lo scontro è sistemico: Washington difende un ordine fondato su trasparenza, libero mercato e regole multilaterali (per quanto applicate in modo selettivo), mentre Pechino propone un capitalismo centralizzato e autoritario, in cui lo Stato guida e orienta l’economia senza le rigidità delle democrazie liberali. Ogni negoziato sui dazi, quindi, è anche un banco di prova per la supremazia ideologica e la sostenibilità dei due modelli.
Le Borse trattengono il respiro, la finanza osserva senza sbilanciarsi
I mercati hanno risposto con cautela all’avvio del vertice. Le Borse europee hanno chiuso in territorio negativo, Wall Street si è mantenuta stabile ma priva di slancio. Gli investitori non scommettono più su soluzioni rapide: sanno che il confronto Usa-Cina non sarà risolto da un documento firmato in un albergo di Londra. Al contrario, temono che una tregua temporanea serva solo a rinviare l’escalation. In questo scenario, l’incertezza diventa struttura e le imprese si muovono di conseguenza, riorganizzando catene del valore e strategie logistiche. È un processo lento ma profondo, che ridefinisce la geografia economica più di quanto possano fare gli annunci dei governi.
Europa tra due fuochi, il dilemma dell’autonomia strategica
La partita non si gioca solo tra Stati Uniti e Cina. L’Europa è parte in causa, sebbene indiretta, e ne subisce le conseguenze senza poter realmente intervenire sui tavoli negoziali. Da un lato, la fedeltà all’alleanza atlantica la spinge a seguire la linea americana; dall’altro, la dipendenza commerciale dalla Cina la costringe a mantenere aperti i canali con Pechino. Il dibattito sull’autonomia strategica, che attraversa Bruxelles da anni, trova nella guerra dei dazi il suo punto critico: l’Unione Europea deve decidere se restare nel cono d’ombra delle superpotenze o diventare un attore capace di mediare, influenzare, proporre. Per ora, si limita a osservare, esprimendo preoccupazione ma senza voce negoziale autonoma.
Una nuova globalizzazione fatta di blocchi e alleanze flessibili
La vera posta in gioco a Londra non è il prezzo delle importazioni o la quantità di soia acquistata. È la forma futura della globalizzazione. Le vecchie regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio appaiono superate; le intese bilaterali, più rapide e meno vincolanti, sembrano aver preso il sopravvento. In questo contesto, la guerra commerciale è anche un processo di riadattamento del sistema internazionale, in cui la fiducia viene sostituita dalla deterrenza economica. I dazi diventano strumenti di pressione più che di protezione, e le alleanze si costruiscono su interessi mobili, non su valori condivisi. Se da Londra uscirà un’intesa, sarà fragile. Ma il solo fatto che si continui a negoziare conferma che il potere, oggi, passa anche dalle dogane.