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Il Canada rompe gli argini: dazi al 100%, l’economia trema

- di: Jole Rosati
 
Il Canada rompe gli argini: dazi al 100%, l’economia trema
Ottawa risponde duro anche gli Usa: si allarga la guerra dei dazi, crescono i rischi di inflazione e recessione.
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Il fronte nordamericano si spacca
Passo spartiacque nella nuova guerra commerciale globale. Il premier canadese Mark Carney (foto), economista esperto e considerato a lungo una colomba del libero scambio, ha annunciato tariffe del 100% su tutte le importazioni di acciaio e alluminio non statunitensi. Ma il messaggio più forte è rivolto proprio a Washington: se entro il 21 luglio non ci sarà un accordo, anche le forniture americane subiranno “un adeguamento” delle tariffe compensative già in vigore, che potrebbero salire oltre il 25%.
Non è più solo una reazione: è una controffensiva. Il Canada, principale fornitore degli Stati Uniti per entrambi i metalli (quasi un quarto dell’acciaio e oltre la metà dell’alluminio importati nel 2024, secondo dati del Department of Commerce), sta segnando un punto di rottura. “Non possiamo permettere che il nostro mercato venga invaso da acciaio terzo, dirottato da altri Paesi”, ha detto Carney, indicando implicitamente la Cina come destinatario di questa misura. Ma è chiaro che la mossa ha una portata globale.
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Il nuovo protezionismo in salsa nordamericana
La decisione canadese arriva dopo che l’amministrazione Trump, con un decreto firmato il 10 giugno 2025, ha raddoppiato al 50% le tariffe su acciaio e alluminio importati, giustificandole con la sicurezza nazionale e la necessità di “difendere l’industria americana dalla concorrenza sleale”. Una mossa che ha immediatamente suscitato reazioni a catena: il Giappone ha già chiesto un’esenzione formale, mentre l’Unione Europea sta valutando una ritorsione su altri beni strategici, incluse componenti aeronautiche e dispositivi medicali.
In questo contesto, la risposta di Ottawa è qualcosa di più di un atto difensivo. È l’inizio di una strategia strutturata: come annunciato dallo stesso Carney, il governo federale avvierà un piano di acquisti pubblici “made in Canada” per acciaio e alluminio destinati a infrastrutture, difesa e industria automobilistica. Un piano industriale travestito da misura commerciale.
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L’effetto domino: meno scambi, prezzi in salita
L’Organizzazione mondiale del commercio ha lanciato l’allarme già a maggio: l’incremento di barriere tariffarie tra i principali blocchi economici sta erodendo la crescita del commercio globale, scesa al +1,4% nel primo trimestre 2025 contro il +2,8% di fine 2024. Secondo il Rapporto OCSE di giugno, la guerra commerciale innescata dagli Stati Uniti potrebbe costare fino a 0,4 punti di Pil mondiale nel 2025-2026, con effetti particolarmente gravi sulle economie esportatrici.
Ma la vera mina è l’inflazione. Se il costo dei metalli industriali aumenta, l’intera catena produttiva ne risente: dall’automotive all’edilizia, fino all’elettronica. Negli Stati Uniti, la Federal Reserve ha già rivisto le stime di inflazione 2025 al rialzo: dal 2,4% di marzo al 3% attuale, segnalando che “i rischi derivanti dal protezionismo commerciale rappresentano un ostacolo al ritorno a un’inflazione stabile”.
Il presidente della Fed Jerome Powell, in un’audizione al Senato, è stato netto: “Someone has to pay for the tariffs — and eventually it’s the consumer.” Tradotto: saranno famiglie e imprese a sopportare il peso di questa politica.
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Tassi fermi, crescita ferma
L’inflazione più alta impedisce alle banche centrali di abbassare i tassi. E con i tassi fermi o alti, l’economia frena. Lo ha confermato anche la Banca d’Inghilterra (BoE), che ha lasciato il tasso base invariato al 4,25% il 13 giugno scorso, spiegando che “l’incertezza commerciale globale compromette le prospettive di disinflazione”. In parallelo, la BCE ha preannunciato che i tagli dei tassi previsti per settembre potrebbero essere posticipati a dicembre, a causa delle pressioni inflattive sui beni importati.
Il rischio, sempre secondo l’OCSE, è l’innesco di una “stagflazione selettiva”: stagnazione nei settori manifatturieri, inflazione nei beni intermedi e calo della produttività, in particolare in Europa e Nord America.
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Trump, Carney e il fantasma del 1930
Il riferimento storico è inevitabile. Nel 1930, la legge Smoot–Hawley innalzò i dazi americani su oltre 20.000 beni importati, innescando una serie di ritorsioni a catena che portarono il commercio globale a contrarsi del 66% in cinque anni. La crisi che ne seguì fu una delle cause profonde della Grande Depressione. Oggi lo scenario è diverso, ma il meccanismo rischia di ripetersi: ogni barriera genera una contro-barriera, e la somma è un freno alla crescita globale.
Carney, ex governatore della Bank of England e della Bank of Canada, conosce bene la lezione della storia. Proprio per questo il suo passo segna una discontinuità: non si tratta più di contenere Trump, ma di contrastarlo. Il Canada non si piega, e lancia un proprio paradigma industriale.
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Le conseguenze per l’Europa (e per l’Italia)
L’Unione Europea guarda con preoccupazione. Secondo fonti di Bruxelles riportate da Politico, la Commissione sta valutando un pacchetto di contromisure mirate che includerebbero anche dazi simbolici su alcuni beni iconici americani (jeans, whiskey, moto) e un possibile ricorso al WTO contro la nuova impennata protezionista. Ma intanto le industrie europee, soprattutto quelle siderurgiche, sono esposte.
In Italia, Federacciai ha lanciato l’allarme: “Se la spirale dei dazi continua, i flussi globali si fermeranno e a farne le spese saranno proprio i produttori che esportano di più, come noi”, ha detto il presidente Alessandro Banzato. E Confindustria stima una perdita potenziale di 1,2 miliardi di euro in un anno solo per il comparto metallurgico, se le tariffe si estendono ai beni intermedi e finiti.
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Un’ultima soglia
Il 21 luglio è la data chiave. Se Trump non rivedrà i dazi al 50%, il Canada colpirà anche le importazioni statunitensi con nuove tariffe, aggravando uno scontro che ormai non è più contenibile. La sensazione è che nessuno abbia più in mano il timone. E che il protezionismo, da minaccia retorica, sia diventato realtà.
Per ora, la Borsa osserva con il fiato sospeso. Ma il rischio vero è un altro: che in un mondo sempre più frammentato, nessuno voglia più difendere il mercato globale. E quando questo accade, a pagare il conto sono sempre i più deboli.

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