Ma non ha veramente padri la crisi che sta uccidendo il Paese?
- di: Diego Minuti
Avete mai visto uno dei nostri uomini politici, che ormai in pianta stabile occupano gli studi televisivi o rilasciano interviste, ammettere di avere, sia pure in parte infinitesimale, una responsabilità nella crisi che attanaglia il Paese?
Crediamo di no, perché alle nostre latitudini la capacità di fare autocritica è un concetto astratto, perché per noi - dalle grandi cose, come la politica, fino alle piccole, come quando si rompe accidentalmente qualcosa - la colpa è sempre di qualcun altro, anche se la responsabilità è palesemente tutta nostra.
Prosegue la crisi che sta mettendo in ginocchio l'Italia
In queste settimane di poverissima, in termini di contenuti, campagna elettorale, abbiamo assistito ad un continuo accusare gli altri, ad una ricerca esasperata di cosa addebitare all'avversario politico, quasi che tutti si possa ignorare che, in Italia, la politica è spesso consociativa, uno spartire in continuazione la grande torta del potere, come se non esistesse differenza tra chi ha vinto e chi ha perso, perché al primo tocca la fetta più grande e al secondo ne tocca una piccola, ma pur sempre gli tocca.
Prima della fine ''manu militari'' della prima repubblica, il sistema politico, con il pentapartito (Dc, Psi, Pri, Psdi e Pli), gestiva il potere distribuendone i benefici in una platea ragionevolmente ampia, con una funzione calmieratrice degli appetiti dei singoli. Poi questo equilibrio è venuto a mancare e la spartizione è stata più netta, con un partito trainante di una coalizione e un altro, altrettanto trainante, dell'opposizione. Con la vittoria dell'uno o dell'altro, poi, scatta uno spoil system talvolta selvaggio, con la conquista in armi del potere scalzandone i ''nominati'' dal precedente governo.
La crisi, però, non è solo quella conseguenza della guerra in Ucraina e dello shock energetico che ne è seguito.
Ce la portiamo dietro da anni, perché non abbiamo saputo cogliere i segnali che pure ci avrebbero dovuto fare capire che bisognava agire, che bisognava rifondare il Paese, dandogli nuove basi in settori che, invece, colpevolmente, sono stati ritenuti intangibili o, nella peggiore delle ipotesi, capaci di andare avanti comunque, anche se di essi non ci si interessava.
I governi degli ultimi trent'anni o giù di lì hanno vissuto, partecipandovi, l'equivoco di ritenere che la macchina italiana avrebbe continuato a marciare, anche senza apportarvi correttivi sia pure lievi. E ora ci troviamo davanti ad un sistema produttivo che comunque marcia, ma solo per l'iniziativa del privato, non certo perché lo Stato sia stato presente.
Così, nonostante qualche voce dissenziente, subito bollata come una Cassandra, ci siamo messi, per quasi il 50 per cento del nostro fabbisogno energetico, nelle mani di un Paese - la Russia - che, dalla caduta del comunismo, non ha certo fatto passi da giganti nel percorso democratico, diventando invece un bastione della autarchia e della plutocrazia, alimentando solo la voracità dell'inner circle dei sodali di Putin.
Le conseguenze di quella scelta sono sotto gli occhi di tutti, anche se i Paesi esportatori energetici ai quali rivolgersi come alternativa a Mosca non è che brillino per tutela dei diritti umani e redistribuzione equa delle ricchezze ''da idrocarburi''.
L'elenco delle cose che dovevano essere fatte e non lo sono state è lungo e, anche, imbarazzante.
Le pecche della Sanità, esplose con il manifestarsi mortifero della pandemia, erano già note. Eppure non sono state affrontate, nel malinteso rispetto del principio dell'autonomia delle Regioni. In questo modo è stata replicata e moltiplicata a dismisura una gestione baronale del settore, spesso privando di riconoscimento le professionalità vere a tutto vantaggio della protezione del proprio territorio, di gestione delle influenze alla quale è stato piegato il supremo obiettivo di salvaguardare la salute pubblica.
Scorrendo gli elenchi di professionisti della Sanità (ma anche dell'Università) si vedono gli stessi cognomi, facendo dell'ammissione ai ruoli un affare di famiglia. Un Paese che ambisce ad essere tale investe sulla scuola, sull'istruzione, sulla formazione, sulla ricerca. Noi non lo abbiamo fatto in maniera sufficiente e oggi ne paghiamo le conseguenze, con decine di migliaia di valorosi insegnanti ancora segregati nell'umiliante recinto del precariato. Colpevoli sottovalutazioni potrebbero essere definite, usando un concetto che suona però quasi come un'attenuante. Ma sarebbe mentire a noi stessi, ben sapendo che il sistema di comparaggi può essere scardinato e avrebbe dovuto esserlo in passato. Così anche oggi leggiamo di potenti boiardi di Ministeri nelle cui sole mani c'era e c'è ancora oggi tanto di quel potere da potere decidere a loro piacimento l'assegnazione di appalti per decine di milioni di euro ad uno stesso soggetto, loro generoso amico. E noi, come popolo, non assolvendo nessuno, ci siamo limitati a guardare, a girare i pollici mentre lo Stato andava alla deriva e purtroppo questa traversata non si è ancora conclusa. Eppure oggi parliamo ancora di opere faraoniche, dall'utilità non scontata, mentre la crisi da strisciante è letteralmente esplosa.
La domanda da farsi, quindi, non è più legata alla cause della crisi, ma sul perché, in un momento in cui l'Italia stava affogando, è stato bucato il salvagente-Draghi; sul perché al governo che aveva credito internazionale, nella delicata fase di gestione del Pnrr, è stata staccata la spina.
Sul perché, poi, piuttosto che assumersene la responsabilità, i partiti che ne hanno decretato la fine fanno spallucce, dicendo che in fondo Mario Draghi aveva loro chiesto, quasi in modo subliminale, di affossarlo.
Se la scelta dei Cinque Stelle è in fondo decrittabile (Giuseppe Conte non dimenticherà né perdonerà mai, sino alla fine dei suoi giorni, d'essere stato accompagnato al portone di palazzo Chigi), lo è un po' meno quella di Lega e Forza Italia. Anche se un sospetto lo si può nutrire sul fatto che Salvini e Berlusconi non potevano concedere a Giorgia Meloni ulteriori sei mesi da sola opposizione, col rischia di vederla al 30 % dei consensi e forse anche di più.
Giochi di potere, verrebbe da dire, se non fosse che la posta in palio è il futuro di un Paese che non può certo stare dietro a promesse che resteranno tali perché irrealizzabili, a minacce su quel che sarà fatto ''una volta che avremo vinto'', come se l'Italia possa essere terreno per vendette contro questa o quella categoria, come ad esempio i magistrati additati come il male assoluto, come se non fossero, loro, parte di un sistema complesso e purtroppo fallato.