Con la Costa Concordia affondò l'orgoglio di un Paese

- di: Diego Minuti
 
La patina del tempo si è ormai sedimentata sul nome di Francesco Schettino, ma, sino a pochi anni fa, lo si utilizzava come epitome di comportamenti oltraggiosi, codardi, confusionari. Oggi, a dieci anni dalla tragica sera in cui la Costa Concordia finì contro un gruppo di scogli che ne sventrarono una fiancata, determinando il naufragio e la morte di 32 persone, si può dire che, con quel gioiello della cantieristica, dove migliaia di persone stavano godendosi le loro vacanze ed altre facevano di tutto per renderle felici, a fare naufragio fu l'orgoglio di un Paese, omologato ai comportamenti di un uomo di mare che tutti definivano come molto esperto, ma che, alla prova dei fatti, subì l'onta incancellabile, per un comandante, della paura.

Con la Costa Concordia affondò l'orgoglio di un Paese

Parlare oggi della tragedia della Costa Concordia è, per molti giornalisti e per la gente comune, un modo per esorcizzarne il ricordo, un ammonimento affinché errori come quelli della notte di gennaio di dieci anni fa non abbiano più a ripetersi. Un intento lodevole, che però, ovviamente, non cancella gli errori, ma li usa per attrezzarsi, per prepararsi, per non farsi cogliere dall'improvvisazione, madre di molti di quelle morti.
Ma dieci anni non sono l'eternità e, per il tempo trascorso, essi non autorizzano a sottovalutare l'accaduto. Basta solo pensare che, come Paese, abbiamo dovuto sopportare i mezzi sorrisi, le smorfiette di altri che, davanti alla puntuale ricostruzione dei fatti e dei comportamenti, hanno pensato: ecco, vedete, i soliti italiani di sempre. Semplificando, abusando del concetto del giudicare la parte per l'intero, agli occhi di alcuni vicini di casa, reali o virtuali (europei, ma anche di Paesi lontani), più o meno amici, siamo diventati tutti Schettino, abbiamo assunto le fattezze del capitano, almeno quelle rimandate dalle fotografie che lo ritraevano imbozzolato in una giacca che certo non lo sfilava, con i capelli impomatati e lo sguardo torvo, che fa tanto 'lupo di mare'.

La parabola del comandante è stata innanzitutto quella dell'uomo, che la legge della marineria definiscono come l'ultimo baluardo davanti all'emergenza, al pericolo. Invece il solo pensiero del contenuto delle telefonate tra lui e il comandante De Falco, che gli intimava di tornare a bordo, perché era lì il suo posto, ci hanno fatto capire che, dentro il doppio petto e gli alamari, sotto gli occhi che scrutano l'orizzonte e i capelli incollati alla testa da un quintale di gel, c'era semplicemente un uomo che, forse per la prima volta, si trovava a fronteggiare la paura, non sapendo cosa fare.

Qualche giorno fa su un giornale a diffusione nazionale è stato pubblicato un lungo articolo che, pur non essendo assolutorio dei comportamenti di Schettino, ha dato l'impressione di volere tendere una mano all'uomo, pur condannando il comandante in fuga. Una ricostruzione salvifica delle sue responsabilità, con ampio spazio al percorso di 'redenzione' che sta affrontando in carcere e che passa anche per studi di giurisprudenza e giornalismo. Il ritratto di un uomo che soffre, ma senza che da esso traspaia la consapevolezza degli errori commessi.

È comunque difficile separare l'uomo dal colpevole e dagli anni che gli restano da scontare. Lo Stato deve concorrere al recupero del condannato, e questo vale anche per Schettino. Però, mai come questa volta, il sottinteso spirito di rivalsa, la rivendicazione della correttezza dei comportamenti che fa a pugni con tutte le ricostruzioni fatte della tragedia, dovrebbero essere confini tra quel che è umano perseguire e la presa di coscienza dell'enormità degli errori commessi. Il tempo ha fatto sì che quel 'non siamo tutti Schettino' sia stato dimenticato. Ma solo quello: l'enormità degli errori resta e di essi dobbiamo fare sempre tesoro. Come deve fare un popolo, una nazione degna di essere considerata tale, anche se qualcuno dei suoi figli sbaglia.
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Italia Informa n° 1 - Gennaio/Febbraio 2024
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