Conte e il ruolo di premier - Restare a dispetto dei santi

- di: Diego Minuti
 
Tutti sanno (almeno credo) che Giuseppe Conte si trova ancora a Palazzo Chigi - dopo l'umiliante coabitazione con Matteo Salvini, che lo aveva ridotto al rango di servo muto, quasi un oggetto di arredamento su cui appoggiare le sue iniziative politiche che ridicolizzavano il concetto di collegialità - solo perché i Cinque Selle, non confermandolo, avrebbero fatto l'ennesima brutta figura.
Per questo fanno sorridere le sortite con cui rivendica l'autonomia da tutto e da tutti, sostenendo di interpretare la figura di premier senza dovere rende conto a nessuno che non siano il popolo italiano e la sua coscienza.

Sul primo - il popolo italiano - ci saremmo, sul secondo ci si consenta un sorriso perché proprio in questi mesi Conte, sia pure mostrando una autonomia ai più molesta, sembra sposare le battaglie dei grillini, senza forse condividerle, ma probabilmente perché cosciente che senza di loro oggi sarebbe tornato al suo studio ed alla docenza universitaria, con altri problemi che non quello di dovere salvare il Paese, soprattutto ora che dall'Europa stanno per arrivare molti soldi, di cui bisognerà pure fare qualcosa.

Ora Conte si ritrova seduto davanti ad un tavolo (virtuale) sul quale sono ammonticchiati 209 miliardi di euro e non ha ancora le idee molto chiare su cosa farne, su come fare e con chi fare. Certo, intorno al tavolo, per sua volontà si ritroveranno anche esponenti dei due partiti maggiori della coalizione di governo (Gualtieri per il Pd e Patuanelli per i Cinque Stelle), ma con i quali, come tutti quelli che si dicono (non pensandolo) di essere primus inter pares, farà valere la sua qualifica, avendo come sponda i grillini.

Ma, ci domandiamo, una struttura come quella che Conte avrebbe delineato (con sei manager, tanti quanti i "progetti centrali, e, sotto ciascuno, una task force di 50 esperti) è funzionale all'obiettivo?
Forse sì, ma non da escludere anche un "forse no" perché moltiplicare i cervelli non significare sommarli. Una massa pletorica, come quella pensata da Conte, rischia di moltiplicare con i contributi anche i punti di frizione, le interpretazioni diverse, i condizionamenti.
E questa è l'ultima cosa di cui ha bisogno l'Italia che, per la prima volta nella sua storia, potrà spendere soldi non suoi.

Dal presidente del Consiglio ci si aspetta sempre che agisca per il meglio, ma non sempre accade, spesso perché è imbrigliato da logiche partitiche, talvolta perché impaniato in vicende più grandi di lui, in cui dovrebbe fare valere, non sempre riuscendoci, la propria personalità. Purtroppo questo non è il caso di Giuseppe Conte, di cui oggi si percepisce non come un asset, ma quasi come un handicap la mancanza di una preparazione politica, di una base di strategia prima che ideologica. Perché se le avesse non incorrerebbe in errori, come nel caso delle affermazioni sul possibile rimpasto di governo (che lui ha attribuito, in una intervista al Corriere della Sera, a rivendicazioni personali e non a ragioni di interesse generale) subito dopo rimangiate quando s'è avveduto che esse avevano scatenato un putiferio.

La stessa vicenda del Mes appare oggettivamente poco spiegabile. I Cinque Stelle, dilaniati da conventicole sempre più evidenti, sembrano avere perso quell'unicità di obiettivi che li aveva caratterizzati inizialmente e le loro divisioni in pseudo-correnti non giova certo al Paese, soprattutto quando si tratta di dovere andare a raccattare ogni centesimo disponibile.
Negli anni del Pentapartito, se un presidente del Consiglio si vedeva messo in un angolo, aveva due scelte: non annegare nel mare della politica o farlo con dignità. Non c'era via di mezzo. Conte ha invece deciso di restare a galla, non agitando le braccia. E ci fermiamo qui per non cadere in una trita battuta.
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