Condannato Gianni Zonin per il crack della Popolare di Vicenza, ma la prescrizione è dietro l'angolo

- di: Redazione
 
La prima frase che viene in mente, davanti alla sentenza per il crack della Banca popolare di Vicenza, è "giustizia è fatta". Ma mai forse, come in casi del genere, quando la prescrizione è dietro l'angolo, la sensazione è tutto l'opposto. Una giustizia incompiuta - per i tempi e non per l'esito - perché l'ampiezza e la solidità del castello accusatorio si va ad infrangere sulla durata di un processo che ha visto la sua conclusione con la condanna di quasi tutti i responsabili del crack della Banca di Vicenza, che banca non era più essendo diventata un feudo personale, dove per riempire i buchi di un bilancio dissennato, si allargava la platea degli azionisti ai quali erano negate le giuste verità su quello che stavano sottoscrivendo.

Il principale imputato (come gli altri chiamato a rispondere di falso in prospetto, ostacolo alla vigilanza e aggiotaggio), l'ex presidente, Gianni Zonin, è stato condannato a sei anni e mezzo da un tribunale tutto al femminile (presidente Deborah De Stefano, giudici Elena Garbo e Camilla Amedoro) che, per quella che è l'imponente massa documentale delle prove d'accusa, non avranno certo grandi difficoltà a motivare in diritto la sentenza. Condanne anche per gli ex vertici della Banca: Emanuele Giustini (sei anni e tre mesi); Paolo Marin e Andrea Piazzetta (sei anni). Assolti due altri "papaveri" dell'istituto vicentino, Giuseppe Zigliotto e Massimiliano Pellegrini, i cui comportamenti per il tribunale non hanno costituito reato. Zonin ha 83 anni e ben difficilmente, in ragione dell'età, vedrà anche da lontano un carcere.

ZONIN: Processo il crack della Popolare di Vicenza

L'esito del primo processo per il crack della Popolare di Vicenza è arrivato dopo un lungo iter, diviso tra quattro anni di indagini e due di dibattimento, con un totale di ben 115 udienze dove l'accusa (pubblica e privata) si è scontrata, a tratti con durezza, con un collegio di difesa che ha dovuto contrarre prove pesanti, certificate da un dato che emerge in tutta la sua evidenza: quasi sette miliardi di euro (risparmi di persone che credevano nella "loro" banca) bruciati da una dissennata condotta nella gestione di un istituto che, fino a pochi anni fa, era ricco grazie alla fiducia che rastrellava tra i piccoli risparmiatori soprattutto veneti. Una fiducia tradita da parte di alcuni componenti del consiglio d'amministrazione le cui determinazioni erosero, abbattendolo, il valore delle azioni che i clienti acquistavano nella speranza, alimentata da una comunicazione tossica, di poterci guadagnare.

Nel momento della lettura della sentenza (giunta dopo 24 ore di camera di consiglio), lui, Gianni Zonin, secondo l'accusa regista e dominus del crack, ha preferito non esserci e quindi non ha ascoltato direttamente lo "sconto" che il collegio giudicante ha fatto, in termini di condanna, rispetto alla richiesta del pubblico ministero (dieci anni di reclusione). Anche per gli altri condannati le richieste della pubblica accusa erano state superiori a quelle determinate dal tribunale.
Il meccanismo che, secondo l'accusa, i vertici della Banca avrebbero messo in piedi ricorda quello delle vendite piramidali, grazie alle quali, nascondendo la grave situazione finanziaria e nella speranza di tappare la falla, si vendevano azioni alle quali non era possibile fare fronte.

Zonin si è dimesso dalla carica di presidente della banca nel 2015, poco dopo l'avvio delle indagini, con tanto di irruzione della Guardia di Finanza nella sede della banca. Per comprendere l'ampiezza della vicenda cui il processo di Vicenza ha messo il primo tassello, in termini di sentenza, basta qualche numero. Zonin ha avuto sequestrati beni per circa venti milioni di euro; la magistratura ha disposto sequestri di beni per un ammontare massimo di 260 milioni; 100 milioni scoperti su un conto corrente aperto in una banca milanese e che sono stati fatti risalire alla Popolare di Vicenza; ottomila le parti civili costituite nel processo di primo grado; non meno di centomila i soggetti effettivamente danneggiati.
Le parti civili hanno puntato il dito anche contro la Banca d'Italia, che avrebbe omesso di svolgere fino in fondo il suo mandato ispettivo e quindi, secondo l'accusa privata, non ha avuto contezza che i bilanci erano mendaci.
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